INTERESSANTISSIMO STUDIO DEL PROF. ENZO DI SALVATORE SULLA LEGGE REGIONALE IDROCARBURI L.R. 14/2000
Enzo DI SALVATORE, Lo Stato, la Regione Siciliana e il problema della competenza legislativa sugli idrocarburi liquidi e gassosi (ottobre 2013)
Lo Stato, la Regione Siciliana e il problema della competenza legislativa sugli idrocarburi liquidi e gassosi
Enzo Di Salvatore
1. La disciplina delle “miniere” nel R.D. 29 luglio 1927, n. 1443 (e nel codice civile del 1942)
2. La competenza legislativa esclusiva sulle “miniere” nello Statuto della Regione Siciliana e la legge regionale n. 30 del 1950 sugli idrocarburi liquidi e gassosi
3. Segue: il problema dei limiti alla competenza legislativa in materia, con specifico riferimento: a) al limite territoriale; b) all’interesse nazionale; c) agli obblighi internazionali dello Stato
4. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (prima della riforma del Titolo V Cost.)
5. La legge regionale n. 14 del 2000: il problema della compatibilità con il diritto dell’Unione europea
6. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (dopo la riforma del Titolo V Cost.)
7. La riforma del Titolo V Cost., la “clausola di maggior favore” e l’impatto della legislazione statale sulla competenza legislativa primaria della Regione Siciliana: il problema della legittimità costituzionale della legge regionale n. 14 del 2000
1. La disciplina delle “miniere” nel R.D. 29 luglio 1927, n. 1443 (e nel codice civile del 1942)
Il Regio Decreto 29 luglio 1927, n. 1443, la cui adozione era stata autorizzata dal Parlamento con legge del 14 aprile 1927, n. 571, aveva unificato il diritto minerario del Regno[1] e disciplinato la ricerca e la coltivazione delle sostanze minerarie e delle energie del sottosuolo[2], riconducendo entro le “miniere” i “combustibili solidi, liquidi e gassosi”[3]. Esso stabiliva che la ricerca di dette sostanze scontasse il previo rilascio, da parte del Ministro per l’economia nazionale, di apposito “permesso”; accordato il quale (ad insindacabile giudizio del Ministro), il ricercatore avrebbe potuto svolgere la sua attività per un massimo di tre anni, dietro pagamento annuo allo Stato di lire due per ogni ettaro di superficie compreso entro i limiti del titolo. Il permesso era cedibile solo su autorizzazione del Ministro e in difetto di questa ogni cessione doveva considerarsi nulla. Il decreto, inoltre, faceva divieto ai possessori dei fondi di opporsi ai lavori di ricerca.
Per quanto concerne la coltivazione, il R.D. prescriveva che le miniere potessero essere coltivate solo da chi avesse ottenuto apposita “concessione” da parte del Ministro, sentito il parere del Consiglio superiore delle miniere e dietro pagamento di un canone annuo di lire cinque[4]. Esso non prevedeva una durata certa per l’esercizio delle attività, limitandosi a dichiarare che la concessione fosse “temporanea”[5]. A tal fine, e sempreché avesse posseduto i requisiti di capacità tecnica e finanziaria, il ricercatore sarebbe stato da preferire ad ogni altro richiedente[6]. In caso contrario, egli avrebbe avuto diritto ad un premio in ragione dell’importanza della scoperta e ad una indennità in ragione delle opere utilizzabili. Analogamente al permesso di ricerca, anche in questo caso qualunque trasferimento del titolo doveva essere preventivamente autorizzato dal Ministro. La concessione cessava per scadenza del termine, per rinuncia o per decadenza e, qualora non fosse stata rinnovata, il concessionario avrebbe dovuto “fare consegna della miniera e delle sue pertinenze all’Amministrazione”. Il decreto, infine, qualificava come pertinenze della miniera “gli edifici, gli impianti fissi interni o esterni, i pozzi, le gallerie, nonché i macchinari, gli apparecchi e utensili destinati alla coltivazione della miniera, le opere e gli impianti destinati all’arricchimento del minerale” e considerava “i materiali estratti, le provviste e gli arredi” come beni mobili[7].
Sebbene nella Relazione che accompagnava il R.D. si sosteneva che la nuova legislazione mineraria riposasse sul principio della demanialità[8], la disciplina dei beni del sottosuolo si informava alla concezione fondiaria della proprietà, in linea con il più generale principio accolto dal codice civile del 1865, in base al quale “chi ha la proprietà del suolo ha pure quella dello spazio sovrastante e di tutto ciò che si trova sopra e sotto la superficie” (art. 440)[9]. Entro questa prospettiva il sottosuolo avrebbe seguitato ad appartenere al proprietario del fondo fino a quando il giacimento minerario non fosse stato scoperto[10] e se ne fosse dichiarata la coltivabilità[11]. Dopodiché si sarebbe determinata l’appartenenza della miniera al patrimonio indisponibile dello Stato[12]. Questo regime giuridico, com’è noto, è stato espressamente confermato dal codice civile del 1942[13]. Vero è che l’art. 840, comma 1, c.c. stabilisce che “la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino”, con la precisazione che “questa disposizione non si applica a quanto forma oggetto delle leggi sulle miniere, cave e torbiere”. Tuttavia, che il rinvio effettuato alla legislazione mineraria – e con esso all’affermazione contenuta nella Relazione ministeriale di cui si è fatto cenno – possa equivalere a conferma del carattere demaniale delle miniere resta escluso dalla circostanza che le miniere non sono ricomprese nell’elencazione dei beni del demanio pubblico, ma in quella dei beni che costituiscono il patrimonio indisponibile dello Stato. L’art. 826 c.c. dichiara, infatti, che “fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo (…)”.
Ed invero, se su queste basi la dottrina del tempo riteneva che la nozione di “miniera” andasse separata da quella di “giacimento minerario”, la tesi che la “miniera” esistesse giuridicamente solo a patto che il “giacimento minerario” fosse stato scoperto e solo in quanto se ne fosse accertata la coltivabilità[14] appariva del tutto problematica, atteso che la dichiarazione di coltivabilità sarebbe stata da intendere come implicitamente contenuta nell’atto stesso della concessione[15]. D’altra parte, però, tacendo qui del fatto che sebbene la coltivazione di un giacimento minerario possa non essere suscettibile di coltivazione in un dato momento storico e divenirlo solo successivamente con l’impiego di tecniche più moderne, difficile sarebbe stato condizionare l’appartenenza della miniera al patrimonio indisponibile dello Stato alla mera scoperta del giacimento minerario. Ciò in quanto, rivenuto un giacimento e non accordata la concessione alla coltivazione, il sottosuolo sarebbe rimasto comunque di proprietà del dominus soli.
Ad ogni modo, nonostante l’art. 10 del R.D. del 1927 discorresse di “possessori” e non di “proprietari”dei “fondi”, i quali, a fronte di un permesso di ricerca, non avrebbero potuto opporsi all’attività del ricercatore, la ricerca era da intendere come limite al godimento della proprietà privata, determinato dal permesso rilasciato dall’amministrazione competente. E in questa direzione si sarebbe mosso anche il codice civile del 1942: “il proprietario del suolo” – recita il suo art. 840 – “non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle”[16].
Tuttavia, la distinzione tra giacimento minerario inteso come bene naturale di proprietà del dominus soli e la miniera intesa come bene giuridico di proprietà dello Stato sollevava un problema ulteriore, ossia quello della natura degli atti amministrativi evocati dalla disciplina legislativa: oggetto del permesso di ricerca era il giacimento minerario, il quale, una volta scoperto e “dichiarato” coltivabile, sarebbe confluito nel patrimonio indisponibile dello Stato come miniera e il cui sfruttamento da parte del terzo si sarebbe determinato solo con il rilascio della concessione di coltivazione.
Da questo punto di vista, la difficoltà maggiore toccava non già la concessione alla coltivazione, quanto, invece, l’esatta qualificazione del permesso di ricerca, atteso che, qualora lo si fosse ricondotto entro la categoria delle autorizzazioni[17], e diversamente per la situazione in cui versava il proprietario del fondo[18], si sarebbe dovuto ammettere che il terzo fosse già titolare di una situazione giuridica soggettiva e che, attraverso il rilascio dell’autorizzazione, occorresse solo rimuovere un ostacolo al relativo esercizio[19]; la qual cosa portava taluno a qualificare il permesso bensì come autorizzazione, ma ritenendo che esso afferisse in via esclusiva all’esercizio di un’attività industriale ovvero – se ben inteso – alla sfera della libertà di iniziativa economica privata[20]. D’altra parte, pure inappagante risultava il tentativo di ricondurre il permesso alla categoria delle concessioni[21], posto che – sulla scorta di un tradizionale insegnamento[22] – questa era ritenuta dalla dottrina funzionale alla costituzione di nuove capacità, poteri e diritti per l’innanzi inesistenti: contraddittorio, in sostanza, sarebbe stato ammettere che l’acquisizione al patrimonio indisponibile dello Stato si determinasse solo con la scoperta del giacimento (e con la attestazione della sua coltivabilità) e contestualmente concludere che con il permesso di ricerca si determinasse ex novo nel privato un inedito diritto. Per questa ragione, una voce rimasta piuttosto isolata – ed anzi oggi considerata superata alla luce dell’attuale sistema normativo[23] – proponeva di ricondurre il permesso entro la categoria delle licenze[24].
2. La competenza legislativa esclusiva sulle “miniere” nello Statuto della Regione Siciliana e la legge regionale n. 30 del 1950 sugli idrocarburi liquidi e gassosi
Lo Statuto della Regione Siciliana dichiara che “fanno parte del patrimonio indisponibile della Regione (…) le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo” (art. 33)[25] e riconduce la disciplina di tali “materie” entro la competenza legislativa esclusiva della Regione (art. 14) [26]. Queste previsioni hanno posto non pochi problemi di carattere interpretativo: il primo ha interessato l’appartenenza al patrimonio regionale dei giacimenti minerari scoperti dopo l’entrata in vigore dello Statuto, in ragione del fatto che l’art. 33 facesse (e fa tuttora) espresso riferimento ai beni dello Stato “oggi esistenti nel territorio della Regione”[27]; il secondo ha investito l’esatta delimitazione delle materie appena indicate e i limiti che l’Assemblea regionale avrebbe incontrato nella disciplina delle stesse (v. § succ.).
Quanto al primo dei due problemi, taluni hanno osservato come, a parte l’incongruenza cui avrebbe messo capo l’idea che solo i giacimenti scoperti prima dell’entrata in vigore dello Statuto potessero appartenere al patrimonio della Regione, il trasferimento ad opera dello Stato aveva ad oggetto non già singoli, ma intere categorie di beni[28]. Questa ricostruzione, seppure condivisibile nel risultato cui perviene, trascura però di considerare che l’art. 33 dello Statuto mantiene distinte due ipotesi: i beni del patrimonio disponibile dello Stato “esistenti” [29] sul territorio regionale al momento dell’entrata in vigore dello Statuto (comma 1) e quelli del patrimonio indisponibile dello stesso, elencati espressamente nella disposizione statutaria e la cui appartenenza al patrimonio della Regione si darebbe a prescindere dalla circostanza che fossero “esistenti” al momento dell’entrata in vigore dello Statuto (comma 2)[30]. In questo modo, la consistenza del patrimonio regionale si comporrebbe sia di singoli beni statali storicamente “esistenti” al momento dell’entrata in vigore dello Statuto sia delle categorie di beni ivi elencati e, quindi, anche dei giacimenti già scoperti o ancora da scoprire. Occorre, inoltre, precisare che la condizione posta dall’art. 33, e cioè che i beni siano sottratti al proprietario del fondo, interessa solo le cave e le torbiere e non anche le miniere. Ciò in quanto, in questa sua parte, la disposizione riecheggia anche formalmente la disciplina già prevista dal codice civile del 1942, che, com’è noto, riconduce detti beni ad un differente regime giuridico, in linea, del resto, con quanto già previsto dalla legislazione mineraria del 1927[31].
Circa, invece, la definizione della materia “miniere” ricompresa nel catalogo dell’art. 14 St., è possibile sostenere che in essa siano riconducibili gli oggetti già disciplinati dalla legge mineraria e, dunque, per quel che qui interessa, anche gli idrocarburi liquidi e gassosi nei termini precisati dal D.R. del 1927[32]. Prova ne è che la legge regionale sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi del 1950[33] presupponeva proprio la qualificazione degli oggetti operata dalla legge mineraria, dato che essa dichiarava che “le disposizioni di cui al R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, e successive modificazioni, continuano ad applicarsi in quanto non incompatibili con quelle della presente legge” (art. 1). La qual cosa dimostra che, sebbene con ciò si fosse inteso disciplinare con modalità in parte differenti la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi rispetto al R.D., la legge regionale manifestava una chiara volontà di non alterare le linee fondamentali del diritto minerario[34].
La legge varata dalla Regione recepiva in larga parte la disciplina recata dal R.D. del 1927[35], mantenendo anzitutto distinto il regime della ricerca da quello della coltivazione[36]. Quanto al primo, si stabiliva che il permesso di ricerca potesse essere rilasciato con decreto dell’Assessore regionale per l’Industria ed il Commercio, sentito il Consiglio Regionale delle Miniere[37], per una durata massima di tre anni (art. 2) e in relazione ad un’area continua non superiore ai 100.000 ettari (art. 3). Alla domanda diretta ad ottenere il permesso occorreva allegare una serie di documenti: una planimetria della zona interessata dalla ricerca, una relazione tecnica, un programma di massima dei lavori da eseguire. Il permissionario che avesse ottenuto il permesso, era tenuto al rispetto di alcuni obblighi, come, ad esempio, iniziare i lavori entro due anni dall’adozione del decreto, informare ogni sei mesi l’Ufficio minerario della Regione, corrispondere alla Regione il diritto annuo anticipato di lire 100. Analogamente a quanto stabilito dal R.D. del 1927, il permissionario non avrebbe potuto cedere il proprio titolo senza preventiva autorizzazione dell’Assessore suddetto. In alcuni punti, la legge si discostava, però, da quella dello Stato, laddove, ad esempio, riconosceva al permissionario il “diritto di ottenere in concessione i giacimenti liquidi o gassosi” scoperti in fase di ricerca. La qual cosa, secondo il R.D., costituiva, invece, una eventualità, atteso che il permissionario sarebbe stato da “preferire” ad ogni altro richiedente solo se avesse posseduto i requisiti di capacità tecnica e finanziaria necessari alle attività di coltivazione[38].
In ordine alla concessione, rilasciata sempre con decreto dell’Assessore per l’Industria ed il Commercio, sentito il Consiglio Regionale delle Miniere, la legge stabiliva che essa avesse una durata non inferiore ai venti anni e non superiore ai trenta, aggiungendo che alla scadenza potesse essere prorogata. Ottenuta la concessione, il beneficiario avrebbe dovuto informare ogni sei mesi l’ufficio minerario sull’andamento dei lavori e sui risultati ottenuti, ottemperare alle disposizioni di legge e alle prescrizioni dell’autorità, corrispondere alla Regione il diritto annuo anticipato di lire 500 per ogni ettaro di superficie compresa nell’area di concessione e un canone annuo “in natura o anche in danaro[39] sostitutivo della partecipazione ai profitti di cui all’art. 18 lettera g), del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443” (art. 7)[40]. Anche in questo caso, la legge regionale specificava con più precisione gli elementi della concessione, limitando maggiormente la discrezionalità dell’amministrazione procedente rispetto a quanto previsto dal R.D.[41]
3. Segue: il problema dei limiti alla competenza legislativa in materia, con specifico riferimento: a) al limite territoriale; b) all’interesse nazionale; c) agli obblighi internazionali dello Stato
L’art. 14 dello Statuto precisa che l’Assemblea regionale ha legislazione esclusiva “nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano”.
Nonostante il tenore letterale della disposizione statutaria, in dottrina e in giurisprudenza si è affermata la completa soggezione della potestà legislativa esclusiva della Regione a limiti ulteriori rispetto a quelli ivi espressamente formulati[42]. Ad essi, infatti, si sono aggiunti il limite dei principi dell’ordinamento giuridico, quello degli obblighi internazionali (e comunitari) e quello dell’interesse nazionale. Gli stessi limiti testualmente contemplati dallo Statuto hanno conosciuto, inoltre, una interpretazione per così dire “adeguatrice”, che ha ridotto di molto le potenzialità insite nell’attribuzione della potestà legislativa regionale[43].
In merito alle attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi, la questione si è posta specialmente con riguardo: a) al limite territoriale; b) agli obblighi internazionali; c) all’interesse nazionale[44].
a) Con la sentenza n. 21 del 1968[45], la Corte costituzionale ha sostenuto che “al tempo della promulgazione dello Statuto siciliano (…) l’esistenza a favore dello Stato del diritto inerente” a risorse energetiche sottomarine fosse “internazionalmente oggetto di serie discussioni”. Secondo il giudice costituzionale non era “supponibile che lo Stato (avesse) attribuito alle Regioni una potestà legislativa e amministrativa su una materia che nemmeno esso poteva ritenere certamente ed indiscutibilmente nella sua sfera, e che comunque internazionalmente, neanche entro un minimo di utilizzabilità, era geograficamente e giuridicamente definita”. In questo modo, la Corte aveva facile gioco nel ritenere che sussistesse una materia – definita “miniera sottomarina”[46] – niente affatto coincidente con quella considerata dall’art. 14 dello Statuto siciliano.
L’affermazione della Corte finiva per innestarsi, invero, sul presupposto – non esplicitato – dell’esistenza di un doppio elenco di materie, collegato il primo alla terraferma e il secondo al mare. Né nello Statuto né in Costituzione, tuttavia, un siffatto criterio risulta elevato a regola generale del riparto delle competenze legislative e amministrative. Vero è che la nozione di “miniera” accolta dallo Statuto deve dirsi coincidente con quella disciplinata dal R.D. del 1927, il quale riferisce la ricerca e la coltivazione delle sostanze minerarie al “sottosuolo”[47], ma quella nozione – nel suo riferimento al “sottosuolo” – va posta in relazione al “territorio dello Stato”[48], ossia ad un concetto giuridico forgiato dal diritto statale e dal diritto internazionale e non ad un concetto naturalistico.
Ora, la Costituzione italiana afferma che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato (art. 114), con ciò volendo significare che un ente territoriale non esista in natura, ma si dia solo a seguito di una qualificazione giuridica resa dal diritto (il quale, eventualmente, può anche presupporre una nozione naturalistica) [49]. Se si ritenesse che il diritto assuma necessariamente (e non solo eventualmente) una nozione naturalistica di “territorio” non si comprenderebbe a quale nozione territoriale lo “Stato” possa esattamente corrispondere. Se, poi, entro questa prospettiva si affermasse che il territorio della Regione coincida sempre con i suoi confini naturali – eventualità, questa, esclusa comunque dall’art. 132 Cost. – ovvero limitati alla sola terraferma, dovrebbe anche ammettersi che l’ambito territoriale naturale dello Stato coincida o con la Repubblica nel suo insieme (ma in senso contrario depone l’art. 114 Cost.) oppure unicamente con il mare territoriale.
L’espressione “territorio dello Stato” sta, invero, a designare l’ambito spaziale di validità del diritto[50] ovvero un ambito, che costituito dalla terraferma, dal mare territoriale e dallo spazio aereo sovrastante, si traduce sul piano interno nella distribuzione delle competenze legislative e amministrative tra gli tutti gli Enti territoriali di cui si compone la Repubblica[51]. Pertanto, tranne il caso in cui non sia la stessa Carta costituzionale o lo Statuto della Regione ad autonomia speciale a limitare detto esercizio alla sola terraferma (come ad es. accadeva nel vigore del vecchio art. 117 Cost. per la materia “pesca nelle acque interne”)[52], deve giocoforza presumersi che, in ordine alle materie attribuite, la potestà legislativa[53] ed amministrativa[54] di detti Enti sia potenzialmente idonea ad interessare il “territorio” nella sua totalità.
b) Con la sentenza 4 luglio 1950, n. 4, l’Alta Corte per la Regione Siciliana aveva escluso che la disciplina regionale degli idrocarburi si ponesse in contrasto con l’interesse nazionale[55]. L’efficacia della legge, sosteneva la Corte, era limitata alla Regione Siciliana e la circostanza che i risultati economici derivanti dall’esercizio delle attività petrolifere potessero ripercuotersi sull’economia nazionale era “conseguenza di ogni attività che si svolga o si ometta nel territorio dello Stato”. Ciò, pertanto, non poneva alcun problema di contrapposizione con lo Stato: la Regione esercitava “poteri suoi, costituzionalmente attribuitile, nella circoscrizione che è parte dello Stato; e l’interesse regionale è anche interesse nazionale”[56]. A conclusione diametralmente opposta sarebbe però pervenuta la Corte costituzionale con la pronuncia del 1968 sopra ricordata, sostenendo che le materie richiamate dall’art. 14 dello Statuto – e segnatamente quella relativa alle “miniere” – ricevessero “restrizioni naturali dai motivi che hanno determinato l’istituzione delle Regioni, consistenti nella cura dell’interesse esclusivamente o almeno prevalentemente localizzato nella sfera regionale”. La competenza sugli idrocarburi in mare sarebbe stata da escludere in ragione del fatto che le finalità cui andavano collegandosi la ricerca e l’estrazione degli stessi non attenevano “all’interesse esclusivo o prevalente delle Regioni”. Del resto, gli idrocarburi erano da qualificare come fonti di energia, e cioè come “beni che, ex art. 43 Cost., a fini di utilità generale, possono formare oggetto di riserva a favore dello Stato”.
La sentenza del giudice costituzionale è stata aspramente criticata dalla dottrina, che ha acutamente osservato come essa si risolvesse in una autentica “petizione di principio”: non solo, in questo modo, la Corte finiva per arrogarsi l’esercizio di “una libera funzione di arbitrato nei contrasti di interesse fra Stato e Regioni”, ma, così decidendo, tentava anche di trarre un argomento dirimente in favore della competenza statale “dalla natura o dal peso economico” degli stessi interessi[57].
D’altra parte, sostenere che la Regione potesse disciplinare le materie elencate nell’art. 14 dello Statuto solo in quanto l’esercizio della sua potestà legislativa fosse collegato ad un interesse circoscritto al territorio regionale equivaleva a giustificare sempre l’attrazione della competenza in capo allo Stato ovvero ritenere in ogni tempo sussistente un limite di carattere sostanziale[58] (e non, invece, di carattere esterno, come pure, nella prospettiva dell’interesse nazionale, si è asserito con riferimento al limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali)[59]. Affermazione, dunque, apodittica e niente affatto in linea con quanto la dottrina più autorevole andava sostenendo[60], e che non chiariva perché mai se lo sfruttamento degli idrocarburi in mare fosse stato da considerare di interesse nazionale altrettanto non dovesse dirsi per quello in terraferma[61].
c) Circa l’esercizio delle attività petrolifere in relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentale, la Corte costituzionale ha negato che la Regione Siciliana potesse rivendicare qualsivoglia pretesa al riguardo in ragione della sussistenza del limite degli obblighi internazionali. Secondo il giudice delle leggi, la potestà legislativa della Regione sugli idrocarburi non avrebbe potuto avere ad oggetto la piattaforma continentale posto che – come si è ricordato già sopra – “al tempo della promulgazione dello Statuto siciliano (…) l’esistenza a favore dello Stato del diritto inerente a tali risorse era internazionalmente oggetto di serie discussioni”: “solo dopo tale promulgazione” – si legge nella pronuncia – “la piattaforma continentale assunse, nell’ordinamento interno, ma parzialmente, il carattere di bene giuridico, perché solo allora acquistò il requisito dell’appropriabilità, che è essenziale per la qualifica di una cosa come bene giuridico”. Se alla Regione fosse stata riconosciuta quella pretesa, l’azione posta in essere avrebbe avuto l’effetto “di determinare in concreto i termini del rapporto interstatuale” e “di coinvolgere la responsabilità internazionale dello Stato circa il modo di esercizio di quella azione”.
Il ragionamento seguito dal giudice delle leggi non appare, invero, lineare. Anzitutto occorre osservare come al tempo dell’adozione della pronuncia della Corte l’Italia non aveva ratificato la Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale[62]. Ragion per cui – a rigore – nessun obbligo internazionale poteva dirsi ancora sorto[63]. In secondo luogo, anche ad ammettere che esistesse una norma internazionale generale corrispondente alla nozione giuridica di piattaforma recata dalla Convenzione, l’esercizio delle attività petrolifere da parte della Regione avrebbe comprovato, semmai, “l’effettività e l’attualità” dell’esercizio di una potestà già spettante allo Stato e, pertanto, a condizione di mantenersi entro il limite segnato da obblighi di natura consuetudinaria, non avrebbe potuto rilevare sul piano dei rapporti internazionali[64]. Detto piano, infatti, rileverebbe unicamente qualora il limite degli obblighi internazionali si traduca in un limite di contenuto, che, sulla base di uno specifico accordo, escluda o condizioni l’esercizio della potestà legislativa regionale[65]; diversamente, la Regione potrebbe dar benissimo seguito agli impegni assunti dallo Stato.
Solo in questa prospettiva può, allora, dirsi corretta l’affermazione secondo la quale il rispetto degli obblighi internazionali costituisce “un limite indefettibile, pur se il singolo Statuto non lo segni in modo espresso”[66]: da accordi internazionali, infatti, discende sempre per la Regione l’obbligo di rispettare le clausole in essi contenute, senza che, però, per ciò solo possa predicarsi un trasferimento in capo allo Stato di una competenza spettante alla Regione. Il problema, pertanto, è quello di comprendere in che modo – sul piano interno – possano coordinarsi le diverse competenze legislative e amministrative regionali e statali[67], soprattutto in ragione del fatto che – nonostante gli obblighi internazionali rilevino sul punto[68] – mentre il mare territoriale è pur sempre parte del territorio dello Stato, la piattaforma continentale – collegata a diritti dello Stato di natura “funzionale”[69] – si estende al di là del mare territoriale “attraverso il prolungamento naturale del suo territorio terrestre fino all’orlo esterno del margine continentale, o fino a una distanza di 200 miglia marine dalle linee di base”[70].
4. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (prima della riforma del Titolo V Cost.)
Nel 1957 il Parlamento italiano adottava la prima legge nazionale sugli idrocarburi liquidi e gassosi, stabilendo che essa trovasse applicazione in tutto il territorio dello Stato ad eccezione (oltre che della Sicilia, della Sardegna e del Trentino-Alto Adige) delle “zone diverse da quelle delimitate nella tabella A, allegata alla legge 10 febbraio 1953, n. 136”, e, cioè, di quelle aree territoriali riservate all’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI)[71]. La legge precisava, inoltre, che le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi continuassero ad essere soggette anche alle leggi e ai regolamenti minerari in vigore, a patto che questi non fossero in contrasto con le nuove disposizioni varate.
Sul piano dei contenuti, diverse erano le novità introdotte rispetto al R.D. del 1927 ed anche alla legge siciliana del 1950: l’esclusione della coincidenza tra le aree oggetto di ricerca e quelle oggetto di concessione, posto che la prima – della durata massima di tre anni – avrebbe potuto interessare un’area non superiore a cinquantamila ettari e la seconda – di durata massima di venti anni (prorogabile per ulteriori dieci anni) – avrebbe potuto avere ad oggetto un’area non superiore a tremila ettari; l’esclusione della contiguità tra le diverse concessioni accordate; il rafforzamento della posizione giuridica del ricercatore, nel senso di riconoscere a questi un diritto ad ottenere la concessione in caso rinvenimento di idrocarburi in “quantità commerciale”; la previsione che la domanda di concessione fosse corredata del programma di sviluppo del campo di coltivazione; la previsione di una aliquota del prodotto, da far corrispondere al concessionario in favore dello Stato, calcolata sulla produzione giornaliera del pozzo, in natura o in danaro per il valore equivalente (dal 2,50 per cento fino al 22 per cento)[72].
Nel 1967, tuttavia, il Parlamento, nel recare una disciplina della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi nel mare territoriale e nella piattaforma continentale, coglieva l’occasione per modificare anche la normativa dettata dalla legge del 1957, provvedendo in parte a sostituire e in parte ad abrogare alcune sue previsioni[73]. In questo modo, oltre ad introdurre ex novo una disciplina dell’attività di prospezione (“consistente in rilievi geologici, geofisici e geochimici, eseguiti con qualunque metodo o mezzo, escluse le perforazioni meccaniche fatta eccezione per quelle necessarie per compiere i rilievi geofisici”), la nuova legge stabiliva: che il permesso di ricerca “esclusivo” fosse rilasciato con decreto del Ministro per l’industria, il commercio e l’artigianato unitamente all’approvazione del programma dei lavori per una durata massima di quattro anni; che al titolare del permesso, che avesse rinvenuto idrocarburi liquidi o gassosi, sarebbe stata da accordare senz’altro la concessione alla coltivazione secondo l’estensione e la configurazione dell’area determinata con decreto dello stesso Ministro e per una durata massima di trenta anni (prorogabili per altri dieci); che oltre alla corresponsione anticipata di un canone per ciascun anno di durata della concessione, il concessionario avrebbe dovuto corrispondere allo Stato una aliquota del prodotto pari al nove per cento della quantità di idrocarburi estratti[74].
A detto quadro normativo – già piuttosto complicato[75] – si è, quindi, aggiunta la legge 9 gennaio 1991, n. 9, con cui il Parlamento ha abrogato diverse disposizioni contenute nelle leggi del 1957 e del 1967[76] e ha disposto che talune previsioni concernenti la coltivazione degli idrocarburi nel mare territoriale e nella piattaforma continentale fossero estese anche alle concessioni di coltivazione in terraferma[77]. Più in generale – e al di là delle specifiche norme recate in favore della tutela ambientale[78] – il Capo I del Titolo II della legge ha disciplinato in modo unitario – e cioè sia in relazione alla terraferma sia in relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentale – le diverse fasi della prospezione, della ricerca e della coltivazione[79], stabilendo che i relativi titoli venissero rilasciati dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentito il Comitato tecnico per gli idrocarburi e la geotermia e la Regione o la Provincia autonoma di Trento o di Bolzano territorialmente interessata.
Quest’ultima previsione, che ricorre in diverse disposizioni della legge[80] e che mira al coinvolgimento dell’Ente regionale e provinciale nel procedimento volto al rilascio del titolo minerario, ha provocato la dura reazione della Regione Valle d’Aosta e delle Province autonome di Trento e Bolzano, le quali, in sede di legittimità costituzionale, hanno denunciato l’indebita avocazione in capo allo Stato delle competenze legislative in materia di idrocarburi ovvero la lesione di competenze costituzionalmente garantite, determinata dal ruolo meramente consultivo riservato ad esse dalla legge, “del tutto parificato a quello delle regioni a statuto ordinario prive di attribuzioni costituzionali nel settore delle miniere” [81].
Nella sua pronuncia, la Corte ha sostenuto che la legge censurata si proponesse non già di recare “misure settoriali su singole materie”, ma di predisporre “una serie di strumenti” finalizzati “ad una gestione globale ed integrata delle risorse energetiche sul territorio”[82]. La qual cosa le ha consentito di impostare il problema in termini rinnovati ovvero di sviluppare uno spunto già contenuto nella precedente sentenza del 1968[83] e di trasferire la questione dall’ambito materiale delle “miniere” al “settore dell’energia”.
Discutibile è, però, anzitutto l’idea che gli “idrocarburi”, qualificati come “una delle materie prime energetiche” ascrivibili al “settore delle miniere”, possano essere ricondotti alla competenza esclusiva dello Stato sull’energia, atteso che in questo modo non si mantiene distinta la competenza sulle attività volte al rinvenimento e all’estrazione delle sostanze minerarie da quella sulle attività finalizzate alla produzione dell’energia. Incoerente, inoltre, è il riferimento alla sussistenza di un preminente interesse nazionale, invocato finanche dall’Avvocatura generale dello Stato, in relazione alla potestà legislativa primaria delle ricorrenti unitamente al limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, in quanto, una volta attratta la questione entro la competenza esclusiva dello Stato (a quel tempo sull’energia, appunto), a nulla può rilevare la circostanza che l’esercizio di detta competenza involga un interesse di carattere statale ovvero locale. Per questa ragione, anche la conclusione cui è pervenuto il giudice costituzionale – e cioè che alcune disposizioni della legge sono illegittime per non aver previsto il rilascio dell’intesa sui titoli minerari da parte della Regione Valle d’Aosta e delle due Province autonome in luogo del mero parere – non può dirsi appagante. Tanto più che – sebbene le previsioni statutarie in materia di miniere siano tra loro sensibilmente differenti – dalla pronuncia della Corte non si ricava alcun elemento utile a chiarire quale sia la sorte riservata alle altre Regioni a Statuto speciale[84].
Da questo punto di vista, l’ambiguità della posizione sulla quale si è attestato il giudice delle leggi si riflette anche sulla successiva normativa varata dal Parlamento italiano, posto che mentre la disciplina recata dal decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625, di attuazione della direttiva 94/22/CE concernente le condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, riconduce la problematica entro il solco della materia “miniere”, quella contenuta nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, attrae la stessa entro il “settore” dell’energia.
Nel decreto n. 625 del 1996 si legge, infatti, che “le regioni a statuto speciale e le province autonome di Treno e Bolzano adeguano la loro disciplina ai principi di cui agli articoli contenuti nel Titolo I del presente decreto, i quali valgono come principi fondamentali di riforma economico-sociale” (art. 39). La qual cosa – a parte la discutibile assimilazione delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali” ai “principi fondamentali”[85] – prova come gli oggetti disciplinati dal decreto afferiscano tutti alla materia “miniere”, sulla quale, come si è visto, insiste una potestà legislativa primaria o di attuazione e integrazione delle Regioni a Statuto speciale e delle due Province autonome.
D’altra parte, però, il d. lgs. n. 112 del 1998 ha stabilito che la materia “miniere e risorse geotermiche” concerne “le attività di ricerca e di coltivazione dei minerali solidi” (art. 32) e che entro la materia “energia” devono essere ricondotte “le attività di ricerca, produzione, trasporto e distribuzione di qualunque fonte di energia (art. 28), comprese le attività di prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio di idrocarburi in mare e in terraferma, le cui funzioni sarebbero da riservare allo Stato (art. 29)[86].
Questa disciplina risulta, però, problematica almeno per due ragioni[87]. Anzitutto perché la legge delega n. 59 del 1997 aveva precisato che fossero esclusi dal conferimento alle Regioni e agli Enti locali “i compiti di rilievo nazionale (…) per la ricerca, la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia”, con ciò presupponendo, evidentemente, che tali compiti non potessero essere riservati automaticamente allo Stato[88]; in secondo luogo, in quanto, sebbene la legge delega discorresse di “ricerca” dell’energia, il decreto del Governo ha ridefinito – nel silenzio, invero, della legge del Parlamento – l’ambito materiale delle “miniere” e attratto entro la materia “energia” attività che sarebbero state più propriamente da ricondurre entro la materia “miniere”, come, appunto, quelle relative agli idrocarburi liquidi e gassosi. Si aggiunga, infine, che, più in generale, la riorganizzazione complessiva delle funzioni amministrative, sganciata dall’assetto costituzionale del riparto delle competenze legislative (come sta a confermare, semmai ve ne fosse bisogno, l’art. 2 della legge delega), ha aperto a non pochi problemi dal punto di vista della coerenza e della funzionalità del sistema. A ciò, come è noto, ha tentato di porre rimedio la Corte costituzionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione con la sentenza n. 303 del 2003[89].
5. La legge regionale n. 14 del 2000: il problema della compatibilità con il diritto dell’Unione europea
La legge della Regione Siciliana 3 luglio 2000, n. 14 ha recato una nuova disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi, abrogando radicalmente la previgente normativa che discendeva dalla legge del 1950. Con essa si è stabilito che tutti i titoli minerari siano rilasciati con decreto dall’Assessore per l’industria (sentito il Consiglio regionale delle miniere), in favore di persone fisiche o giuridiche, che dispongano delle capacità tecniche ed economiche adeguate agli impegni programmati (art. 3). Una volta che il titolo sia rilasciato, i proprietari dei fondi non possono opporsi alle attività autorizzate, salvo il diritto alle indennità per gli eventuali danni arrecati. Tutte le opere necessarie all’esercizio di tali attività sono considerate di pubblica utilità, indifferenti ed urgenti; e qualora debbano essere eseguite fuori dal perimetro dell’area data in permesso o in concessione, l’Assessore per l’industria può dichiararne la pubblica utilità. Se, invece, si tratti di opere temporanee da eseguire in aree esterne al centro edificato, non occorre alcun provvedimento autorizzatorio, nulla osta o assenso comunque denominato (art. 6). Il decreto di conferimento del titolo può fissare condizioni, requisiti o obblighi “particolareggiati” per lo svolgimento delle attività, ma solo se giustificati dalla necessità di assicurare il corretto esercizio delle stesse in relazione alla tutela di alcuni beni, come l’ambiente, il patrimonio artistico, archeologico, ecc. (art. 8).
Alle attività di prospezione è dedicato il Titolo II della legge, alla ricerca il Titolo III, alla coltivazione il Titolo IV. Circa la ricerca, la legge stabilisce che le attività relative possano essere negate solo per “motivate ragioni di interesse pubblico” (art. 18). La durata del permesso è di sei anni (art. 22) e pone in capo al permissionario una serie di obblighi, come, ad esempio, iniziare i lavori entro un anno dal rilascio del titolo, dare svolgimento al programma dei lavori e informare ogni sei mesi l’URIG dell’andamento degli stessi, attenersi a quanto stabilito dal decreto di conferimento del permesso e dal disciplinare tipo, ecc. (art. 23). Quanto alle attività di coltivazione, queste possono essere svolte solo sulla base di una concessione da accordare al titolare del permesso che abbia rinvenuto gli idrocarburi liquidi o gassosi, sempreché presenti domanda in tal senso. Essa non può superare venti anni, anche se è prorogabile – complessivamente – per altri venti (art. 27). Altre due previsioni devono essere qui, infine, menzionate: quella relativa ai canoni e alle aliquote (art. 30)[90] e quella relativa alla riservatezza dei dati (art. 45). Per quest’ultima risulta testualmente disposto che “i dati e le notizie di carattere tecnico ed economico relativi alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione, forniti all’Amministrazione dai titolari dei permessi di ricerca e concessioni che rivestono carattere di riservatezza (…) non possono essere resi pubblici senza il consenso scritto degli interessati” e che quelli “relativi a permessi e concessioni revocati, scaduti o rinunciati” possono esserlo solo dopo che siano trascorsi due anni dalla cessazione dei titoli.
La legge regionale si presta ad una serie di considerazioni, relative sia alla disciplina posta dal diritto dell’Unione europea, sia a quella che, (anche) in materia di energia, informa i rapporti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, alla luce dello specifico orientamento seguito dal giudice delle leggi.
Per quanto concerne il diritto dell’Unione, nella legge si dichiara che la disciplina delle attività di prospezione, ricerca, coltivazione, trasporto e stoccaggio degli idrocarburi è data, oltreché “nella salvaguardia degli interessi nazionali”, in conformità “alle direttive europee”. Mentre dall’intitolazione della legge si evince che la normativa regionale è recata in attuazione della direttiva 94/22/CE[91].
Da questo punto di vista, essa presuppone che la questione delle aree del territorio regionale da rendere disponibili all’esercizio delle attività minerarie sia previamente risolta dallo Stato, in ragione del fatto che la direttiva sembra attribuire in via esclusiva[92] in capo agli “Stati membri” il diritto di determinare quali parti del “loro territorio” debbano essere aperte o chiuse all’esercizio di tali attività (art. 2 dir.). L’art. 3 del d. lgs. n. 625 del 1996, infatti, ha dato seguito a quanto richiesto dal diritto europeo, stabilendo che le aree del territorio nazionale e le zone del mare territoriale e della piattaforma continentale aperte alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sono coincidenti con quelle già individuate dalla legge n. 623 del 1967 e che sono rese “disponibili in maniera permanente”.
Per altri aspetti, però, la legge pare di dubbia conformità alla direttiva europea, per esempio laddove prevede che il permesso di prospezione, rilasciato per la durata di un anno, non sia “esclusivo” (art. 14), posto che la direttiva prescrive espressamente che tutti i titoli siano “esclusivi” (art. 1 dir.), e forse anche laddove omette di stabilire l’estensione massima dell’area oggetto di concessione, fissando la durata (potenziale) della concessione (proroghe comprese) fino a quaranta anni (art. 27), atteso che, secondo quanto si legge nella direttiva, “l’estensione delle aree costituenti oggetto di autorizzazioni e la durata di quest’ultime devono essere limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto su aree per le quali la (…) coltivazione (può) essere avviat(a) in modo più efficace da diversi enti”. Senza contare che il dubbio di legittimità potrebbe ulteriormente rafforzarsi in ragione del fatto che il d. lgs. del 1996 – che pure impone alle Regioni a Statuto speciale di adeguare la disciplina regionale in materia ai principi deducibili dagli articoli collocati al suo Titolo I, in quanto “principi fondamentali delle riforme economico-sociali”[93] – stabilisce che la concessione “in terraferma, nel mare territoriale e nella piattaforma continentale” abbia una durata massima di trenta anni (proroga compresa) e che non possa superare “i 150 chilometri quadrati”.
In relazione ai rapporti con il diritto statale, e con riserva di approfondire la questione con riguardo alla materia energetica, alcune previsioni della legge, che incidono sia sulla disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi sia su quella della tutela ambientale, si presentano alquanto problematiche.
La legge regionale 5 aprile 2011, n. 5, ha modificato la legge 30 aprile 1991, n. 10, recante “Disposizioni per i provvedimenti amministrativi, il diritto di accesso ai documenti amministrativi e la migliore funzionalità dell’attività amministrativa” ed ha abrogato le disposizioni regionali sul diritto di accesso, rinviando alla disciplina posta dalla legge statale 7 agosto 1990, n. 241. Con ciò si è accettato, pertanto, di applicare al territorio regionale finanche le limitazioni che al diritto di accesso risultano fissate dalla legge statale[94].
Ora, questa circostanza potrebbe lasciar credere che la disciplina legislativa del diritto di accesso, come ricavabile dall’art. 45 della legge n. 14 del 2000 sugli idrocarburi, sia, tuttavia, legittima, in quanto derogatoria di (e, dunque, speciale rispetto a) quella più generale posta dalla legge del 2011. Una conclusione di questo tipo sarebbe, però, da escludere, atteso che la legge n. 241 del 1990 espressamente stabilisce che la legislazione regionale – tutta – si adegui alle disposizioni dell’art. 29, ove si afferma che le disposizioni sul diritto di accesso attengono ai livelli essenziali delle prestazioni e che le Regioni, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati, ma possono solo prevedere livelli ulteriori di tutela[95].
Se si va, infatti, a vedere quel che stabilisce la legge del 1990, si scopre che accessibili risultano essere “tutti i documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) e cioè “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d)), tranne quelli espressamente indicati all’art. 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6 (art. 22, comma 3), come i documenti coperti dal segreto di Stato o quelli contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi ovvero anche quelli individuati con regolamento governativo “quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono” (art. 24, comma 6, lett. c))[96]. La qual cosa dovrebbe provare ulteriormente come non sia nella disponibilità della Regione provvedere in ordine a ipotesi di esclusione, che attengano ai casi indicati dall’art. 24[97].
Per quanto concerne, invece, la materia ambientale, discutibile è la possibilità, ammessa dalla legge siciliana, di consentire attività di prospezione “con metodi, mezzi e tecnologie diverse” anche in aree naturali protette (art. 14, comma 7).
Nonostante, infatti, in essa si precisi che le attività relative debbano svolgersi “nel rispetto delle norme vigenti in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio”, tale possibilità parrebbe esclusa soprattutto a seguito della decisione del Legislatore statale[98] di voler ricondurre la prospezione entro il permesso di ricerca[99]: in ragione di ciò, dovrebbero dirsi oggi estensibili alle attività di prospezione anche gli artt. 5 ss. della legge n. 9 del 1991 concernenti la ricerca, sebbene non possa sottacersi come numerosi dubbi di carattere interpretativo restino comunque sullo sfondo, posto che i commi 11, 12 e 13 dell’art. 6 della legge n. 9 del 1991 risultano formulati in modo piuttosto ambiguo.
Il comma 11 prevede che ove sussistano gravi motivi di carattere ambientale o archeologico-monumentale, il permesso di ricerca può essere revocato; il comma 12 afferma che le norme di cui ai commi da 5 a 10 si applicano anche ai permessi di ricerca in corso alla entrata in vigore della legge; il comma 13 stabilisce che “sono sospesi i permessi di ricerca nelle zone dichiarate parco nazionale o riserva marina”.
Sulla base di dette disposizioni sembrerebbe che, mentre la revoca abbia riguardo a quelle attività di ricerca che si svolgano fuori dai parchi nazionali e dalle riserve marine protette (in questo caso, i gravi motivi che consigliano la revoca del titolo non potrebbero che essere successivi al rilascio del titolo, come sarebbe ad esempio se entro l’area di ricerca si scoprisse un sito archeologico), la sospensione interessi quelle attività di ricerca che si svolgano entro un parco nazionale o una riserva marina[100]. In entrambi i casi, in virtù di quanto stabilito dal comma 12 dell’art. 6, la revoca e la sospensione concernerebbero unicamente le attività autorizzate dopo l’entrata in vigore della legge.
Questa ricostruzione, però, non potrebbe dirsi convincente. Volendo qui tralasciare – per ragioni collegate alla sua inattualità – la questione della revocabilità dei titoli accordati prima dell’entrata in vigore della legge, il problema avrebbe ad oggetto la sospensione del permesso di ricerca, quando le attività relative concernessero parchi nazionali o riserve marine che preesistano al rilascio del titolo.
Anche ammesso, infatti, che la sospensione ope legis del titolo non riguardi i permessi di ricerca, che, ricadenti entro parchi nazionali o riserve marine, siano stati accordati prima dell’entrata in vigore della legge, non potrebbe interpretarsi la disposizione in parola – sottolineando magari come questa discorra solo di sospensione e non anche di divieto – riferendola unicamente a quei parchi e a quelle riserve che fossero istituiti dopo il rilascio del titolo, giacché, in questo modo, si arriverebbe alla seguente paradossale conclusione: che se il parco fosse istituito prima del rilascio del titolo l’attività di ricerca sarebbe sempre possibile; che, qualora, invece, fosse istituito dopo il rilascio del titolo l’attività di ricerca sarebbe sempre vietata (rectius: sospesa). È chiaro, invece, che quella sospensione – proprio perché possa avere un senso la disposizione che la sancisce – presuppone che in presenza di un parco nazionale o di una riserva marina sia fatto divieto di svolgere ogni attività di ricerca[101]. E che, per conseguenza, nonostante la legge taccia sul punto, debba intendersi vietata in dette aree finanche la coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi[102]. Anche da questo punto di vista, la legge siciliana potrebbe porre dubbi di legittimità.
6. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (dopo la riforma del Titolo V Cost.)
L’art. 117, comma 3, della Costituzione – nel testo risultante dalla riforma costituzionale del 2001 – ha annoverato la materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” tra le “materie di legislazione concorrente”, con ciò recependo quasi pedissequamente la formulazione recata dal d.lgs n. 112 del 1998.
L’attrazione di detta materia entro la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni ha sollevato perplessità in dottrina[103] e ha conosciuto una serie di interventi del giudice costituzionale, che, divenuti sempre più numerosi dal 2004[104], hanno finito per incidere profondamente sulle relazioni tra i livelli territoriali di governo, nell’ottica di un approccio globale al settore energetico, inteso non tanto (e non più) come “materia”, quanto, invece, quale “politica energetica nazionale”[105]. In questo modo, si è finito per aderire ad una macronozione di “materia”, la cui disciplina, fatta propria dal Parlamento con legge 23 agosto 2004, n. 239, sulla scorta di quanto già previsto dal citato d.lgs. del 1998, lungi dal modellarsi attraverso una rigida separazione delle competenze legislative tra il livello statale (chiamato a porre i principi) e il livello regionale (chiamato a recare la normativa di dettaglio), resta ancorata agli “obiettivi” da raggiungere.
Nella legge, infatti, si dice chiaramente che “gli obiettivi e le linee della politica energetica nazionale, nonché i criteri generali per la sua attuazione a livello territoriale, sono elaborati e definiti dallo Stato che si avvale anche dei meccanismi di raccordo e di cooperazione con le autonomie regionali” e che la loro concreta realizzazione è assicurata “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione dallo Stato, dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, dalle regioni e dagli enti locali” (art. 1, commi 1 e 3).
Tra le attività del settore energetico vengono quindi annoverate anche quelle relative agli idrocarburi liquidi e gassosi, le cui “determinazioni” – in relazione alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione degli stessi – sono riservate allo Stato, sebbene di intesa con le Regioni interessate[106].
I commi 77-82 dell’art. 1 della legge – come modificati dalla legge 23 luglio 2009, n. 99 – recano una nuova e parziale disciplina dei procedimenti autorizzatori, prevedendo quanto segue: 1) il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali e regionali interessate; esso consente solo lo svolgimento delle attività di prospezione, esclusa la perforazione dei pozzi esplorativi, per la quale occorre apposita autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale minerario per gli idrocarburi e la geotermia competente, rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale, oltre alla Regione, partecipano anche gli enti locali interessati; 2) il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in mare è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali interessate. Anche in questo caso è esclusa la perforazione del pozzo esplorativo, per la quale occorre apposita autorizzazione, previa valutazione di impatto ambientale.
Il comma 81 dell’art. 1 stabiliva che, più in generale, l’attività di prospezione fosse soggetta alla procedura di screening ambientale, tranne qualora avesse trovato svolgimento all’interno di are marine a qualsiasi titolo protette (per ragioni di carattere ambientale, di ripopolamento, archeologico, ecc.). Nel qual caso, sarebbe stato obbligatorio procedere a valutazione di impatto ambientale o comunque ad altro tipo di valutazione. Questa previsione è stata tuttavia abrogata e per la disciplina relativa occorre ora far riferimento a quanto stabilisce l’art. 6, comma 17, del Codice dell’ambiente del 2006, come modificato dal d.l. 22 giugno 2012, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134.
Esso, come si è accennato più dietro[107], fa divieto di svolgere attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle aree marine e costiere “a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale” ed estende detto divieto alle zone di mare poste entro le dodici miglia dalla costa per l’intero perimetro costiero nazionale (che in presenza di un’area marina protetta si calcola a partire dal perimetro esterno), facendo tuttavia salvi i procedimenti concessori in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128. In questo modo, il divieto di svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi non trova applicazione ai procedimenti avviati e non ancora conclusi alla data di entrata in vigore del decreto; sebbene l’autorizzazione allo svolgimento delle attività relative debba essere preceduta dalla VIA e debba essere acquisito il parere degli Enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle stesse[108].
Ebbene, l’abrogazione del comma 81 dell’art. 1 della legge del 2004 dovrebbe comportare quanto segue: 1) che per i procedimenti in itinere che ricadano entro le 12 miglia dalla costa e che siano relativi ad aree marine protette a qualsiasi titolo e per scopi anche diversi da quelli ambientali – per esempio archeologici – le attività relative continuano ad essere sottoposte a valutazione di impatto ambientale o ad altro tipo di valutazione; 2) che per i procedimenti successivi all’entrata in vigore del decreto, e che siano relativi ad attività che interessino aree marine collocate oltre le 12 miglia dalla costa, non si procederebbe più ad obbligatoria valutazione di impatto ambientale o ad altro tipo di valutazione, nel caso in cui l’area risulti comunque protetta, mentre intatto, in ragione della specifica disciplina dettata dal codice dell’ambiente[109] e dalla direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, resterebbe l’obbligo di sottoporre i progetti medesimi a screening ambientale[110].
Quanto alla coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, il comma 82-ter – nella versione introdotta dalla legge 23 luglio 2009, n. 99 – stabilisce che la concessione sia rilasciata “a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni competenti ai sensi del comma 7, lettera n) del presente articolo, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”.
Il dubbio che qui si affaccia concerne, invero, la cerchia dei soggetti istituzionali legittimati a prender parte al procedimento finalizzato al rilascio del titolo minerario: tale comma, infatti, non distinguendo tra coltivazione di idrocarburi in terraferma e coltivazione di idrocarburi in mare, sembrerebbe postulare che il procedimento da seguire sia il medesimo per entrambi i casi. E a sostegno di questa conclusione militerebbe anche il successivo comma 82-quater, che fa, invece, espresso riferimento alla sola coltivazione in terraferma[111].
Da questo punto di vista, il problema che si pone è se il rilascio del titolo debba essere preceduto o meno dall’intesa con le Regioni interessate, posto che se, per un verso, il comma 82-ter espressamente rinvia alle “amministrazioni competenti ai sensi del comma 7, lettera n)” – e, dunque, anche alle “Regioni interessate” –, per altro verso, in esso risulta chiaramente stabilito che le determinazioni inerenti la coltivazione di idrocarburi sono adottate sì “di intesa con le regioni interessate”, ma unicamente qualora ciò concerna la terraferma[112].
7. La riforma del Titolo V Cost., la “clausola di maggior favore” e l’impatto della legislazione statale sulla competenza legislativa primaria della Regione Siciliana: il problema della illegittimità costituzionale della legge regionale n. 14 del 2000
In ragione di quanto previsto dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ove si legge che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alla Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” [113], la competenza legislativa concorrente in materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” – non considerata originariamente dallo Statuto regionale – risulta ora estesa anche alla Regione Siciliana. Come ha chiarito il giudice costituzionale, detta estensione investe sì il piano delle funzioni legislative[114] e amministrative[115] dei “nuovi poteri”, ma trascina con sé i limiti consuetamente applicabili a quel tipo di potestà, e cioè quelli “espressi od impliciti, contenuti nel nuovo Titolo V”[116]: la prevalenza (funzionale) della materia “energia” su altre materie, che, affidate alla competenza esclusiva della Regione, risultassero con essa connesse[117], il rispetto dei principi fondamentali fissati con legge del Parlamento[118], la possibilità che lo Stato effettui la c.d. “chiamata in sussidiarietà” delle funzioni amministrative e legislative[119], il ricorso al potere sostitutivo nel rispetto dell’art. 120 Cost. ed anche dell’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131[120].
Ebbene, la circostanza che il Legislatore statale – in ciò sostenuto dall’orientamento giurisprudenziale Corte[121] – riconduca gli idrocarburi nella più generale disciplina della materia energetica (riconduzione, come si è detto più sopra, del tutto discutibile, posto che l’art. 117, comma 3, Cost., ascrive alla competenza concorrente unicamente la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” e non già le attività di ricerca e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, che, in quanto tali, non sarebbero produttive di energia)[122] farebbe sì che l’esercizio della competenza regionale esclusiva sugli idrocarburi, legittimata dalla previsione statutaria sulle “miniere”, si converta nell’esercizio di una competenza regionale concorrente: con tutti i limiti di cui si è detto più sopra e nonostante la legge n. 239 del 2004 contempli espressamente la c.d. “clausola di salvezza”[123].
La qual cosa, nel caso siciliano, finisce, allora, per sollevare un problema non altrimenti eludibile[124]: quello della legittimità costituzionale della legge regionale n. 14 del 2000, alla luce della nuova disciplina ricavabile dal Titolo V Cost.
Da questo punto di vista, però, a meno di non ritenere che la legge regionale soggiaccia al principio sancito dall’art. 10 della legge 10 febbraio 1953, n. 62, il quale, al di là delle assai convincenti critiche mosse dalla dottrina più autorevole[125], stabilisce l’abrogazione delle leggi regionali che si pongano in contrasto con i nuovi principi recati dalle leggi della Repubblica[126] (in questo caso: dalla legge n. 239 del 2004), dovrebbe predicarsi la perfetta validità della legge siciliana, atteso che lo stesso giudice costituzionale ha da tempo stabilito che “l’eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e regione, sarebbe (…) suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l’efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all’epoca della sua emanazione” [127].
Se così fosse, dovrebbe anche convenirsi che solo le modifiche legislative future siano da assoggettare al nuovo riparto delle competenze legislative e che unicamente in una evenienza siffatta la legittimità della normativa varata dalla Regione possa essere sindacata alla luce dei principi fondamentali introdotti dalla legge n. 239 del 2004. Con tutto ciò che ne consegue, ovviamente, finanche sul piano degli interventi derogatori disposti dal Legislatore statale.
Questa interpretazione non può, tuttavia, dirsi convincente. Salvi, infatti, gli eventuali diversi profili di illegittimità che dovessero emergere (e che più sopra sono stati posti in luce), è preferibile ritenere che l’Assemblea regionale sia libera di mantenere intatta o di modificare la legge n. 14 del 2000. E ciò – al di là della questione della perdurante applicabilità dei limiti statutari[128] – anche senza l’osservanza dei principi fissati dalla legge dello Stato, in quanto la “clausola di maggior favore” di cui all’art. 10, legge cost. cit., impedirebbe l’adozione di qualsivoglia deroga a disposizioni dello Statuto, quando queste attribuiscano puntuali competenze in capo alla Regione[129].
Enzo Di Salvatore
1. La disciplina delle “miniere” nel R.D. 29 luglio 1927, n. 1443 (e nel codice civile del 1942)
2. La competenza legislativa esclusiva sulle “miniere” nello Statuto della Regione Siciliana e la legge regionale n. 30 del 1950 sugli idrocarburi liquidi e gassosi
3. Segue: il problema dei limiti alla competenza legislativa in materia, con specifico riferimento: a) al limite territoriale; b) all’interesse nazionale; c) agli obblighi internazionali dello Stato
4. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (prima della riforma del Titolo V Cost.)
5. La legge regionale n. 14 del 2000: il problema della compatibilità con il diritto dell’Unione europea
6. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (dopo la riforma del Titolo V Cost.)
7. La riforma del Titolo V Cost., la “clausola di maggior favore” e l’impatto della legislazione statale sulla competenza legislativa primaria della Regione Siciliana: il problema della legittimità costituzionale della legge regionale n. 14 del 2000
1. La disciplina delle “miniere” nel R.D. 29 luglio 1927, n. 1443 (e nel codice civile del 1942)
Il Regio Decreto 29 luglio 1927, n. 1443, la cui adozione era stata autorizzata dal Parlamento con legge del 14 aprile 1927, n. 571, aveva unificato il diritto minerario del Regno[1] e disciplinato la ricerca e la coltivazione delle sostanze minerarie e delle energie del sottosuolo[2], riconducendo entro le “miniere” i “combustibili solidi, liquidi e gassosi”[3]. Esso stabiliva che la ricerca di dette sostanze scontasse il previo rilascio, da parte del Ministro per l’economia nazionale, di apposito “permesso”; accordato il quale (ad insindacabile giudizio del Ministro), il ricercatore avrebbe potuto svolgere la sua attività per un massimo di tre anni, dietro pagamento annuo allo Stato di lire due per ogni ettaro di superficie compreso entro i limiti del titolo. Il permesso era cedibile solo su autorizzazione del Ministro e in difetto di questa ogni cessione doveva considerarsi nulla. Il decreto, inoltre, faceva divieto ai possessori dei fondi di opporsi ai lavori di ricerca.
Per quanto concerne la coltivazione, il R.D. prescriveva che le miniere potessero essere coltivate solo da chi avesse ottenuto apposita “concessione” da parte del Ministro, sentito il parere del Consiglio superiore delle miniere e dietro pagamento di un canone annuo di lire cinque[4]. Esso non prevedeva una durata certa per l’esercizio delle attività, limitandosi a dichiarare che la concessione fosse “temporanea”[5]. A tal fine, e sempreché avesse posseduto i requisiti di capacità tecnica e finanziaria, il ricercatore sarebbe stato da preferire ad ogni altro richiedente[6]. In caso contrario, egli avrebbe avuto diritto ad un premio in ragione dell’importanza della scoperta e ad una indennità in ragione delle opere utilizzabili. Analogamente al permesso di ricerca, anche in questo caso qualunque trasferimento del titolo doveva essere preventivamente autorizzato dal Ministro. La concessione cessava per scadenza del termine, per rinuncia o per decadenza e, qualora non fosse stata rinnovata, il concessionario avrebbe dovuto “fare consegna della miniera e delle sue pertinenze all’Amministrazione”. Il decreto, infine, qualificava come pertinenze della miniera “gli edifici, gli impianti fissi interni o esterni, i pozzi, le gallerie, nonché i macchinari, gli apparecchi e utensili destinati alla coltivazione della miniera, le opere e gli impianti destinati all’arricchimento del minerale” e considerava “i materiali estratti, le provviste e gli arredi” come beni mobili[7].
Sebbene nella Relazione che accompagnava il R.D. si sosteneva che la nuova legislazione mineraria riposasse sul principio della demanialità[8], la disciplina dei beni del sottosuolo si informava alla concezione fondiaria della proprietà, in linea con il più generale principio accolto dal codice civile del 1865, in base al quale “chi ha la proprietà del suolo ha pure quella dello spazio sovrastante e di tutto ciò che si trova sopra e sotto la superficie” (art. 440)[9]. Entro questa prospettiva il sottosuolo avrebbe seguitato ad appartenere al proprietario del fondo fino a quando il giacimento minerario non fosse stato scoperto[10] e se ne fosse dichiarata la coltivabilità[11]. Dopodiché si sarebbe determinata l’appartenenza della miniera al patrimonio indisponibile dello Stato[12]. Questo regime giuridico, com’è noto, è stato espressamente confermato dal codice civile del 1942[13]. Vero è che l’art. 840, comma 1, c.c. stabilisce che “la proprietà del suolo si estende al sottosuolo, con tutto ciò che vi si contiene, e il proprietario può fare qualsiasi escavazione od opera che non rechi danno al vicino”, con la precisazione che “questa disposizione non si applica a quanto forma oggetto delle leggi sulle miniere, cave e torbiere”. Tuttavia, che il rinvio effettuato alla legislazione mineraria – e con esso all’affermazione contenuta nella Relazione ministeriale di cui si è fatto cenno – possa equivalere a conferma del carattere demaniale delle miniere resta escluso dalla circostanza che le miniere non sono ricomprese nell’elencazione dei beni del demanio pubblico, ma in quella dei beni che costituiscono il patrimonio indisponibile dello Stato. L’art. 826 c.c. dichiara, infatti, che “fanno parte del patrimonio indisponibile dello Stato le foreste che a norma delle leggi in materia costituiscono il demanio forestale dello Stato, le miniere, le cave e torbiere quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo (…)”.
Ed invero, se su queste basi la dottrina del tempo riteneva che la nozione di “miniera” andasse separata da quella di “giacimento minerario”, la tesi che la “miniera” esistesse giuridicamente solo a patto che il “giacimento minerario” fosse stato scoperto e solo in quanto se ne fosse accertata la coltivabilità[14] appariva del tutto problematica, atteso che la dichiarazione di coltivabilità sarebbe stata da intendere come implicitamente contenuta nell’atto stesso della concessione[15]. D’altra parte, però, tacendo qui del fatto che sebbene la coltivazione di un giacimento minerario possa non essere suscettibile di coltivazione in un dato momento storico e divenirlo solo successivamente con l’impiego di tecniche più moderne, difficile sarebbe stato condizionare l’appartenenza della miniera al patrimonio indisponibile dello Stato alla mera scoperta del giacimento minerario. Ciò in quanto, rivenuto un giacimento e non accordata la concessione alla coltivazione, il sottosuolo sarebbe rimasto comunque di proprietà del dominus soli.
Ad ogni modo, nonostante l’art. 10 del R.D. del 1927 discorresse di “possessori” e non di “proprietari”dei “fondi”, i quali, a fronte di un permesso di ricerca, non avrebbero potuto opporsi all’attività del ricercatore, la ricerca era da intendere come limite al godimento della proprietà privata, determinato dal permesso rilasciato dall’amministrazione competente. E in questa direzione si sarebbe mosso anche il codice civile del 1942: “il proprietario del suolo” – recita il suo art. 840 – “non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle”[16].
Tuttavia, la distinzione tra giacimento minerario inteso come bene naturale di proprietà del dominus soli e la miniera intesa come bene giuridico di proprietà dello Stato sollevava un problema ulteriore, ossia quello della natura degli atti amministrativi evocati dalla disciplina legislativa: oggetto del permesso di ricerca era il giacimento minerario, il quale, una volta scoperto e “dichiarato” coltivabile, sarebbe confluito nel patrimonio indisponibile dello Stato come miniera e il cui sfruttamento da parte del terzo si sarebbe determinato solo con il rilascio della concessione di coltivazione.
Da questo punto di vista, la difficoltà maggiore toccava non già la concessione alla coltivazione, quanto, invece, l’esatta qualificazione del permesso di ricerca, atteso che, qualora lo si fosse ricondotto entro la categoria delle autorizzazioni[17], e diversamente per la situazione in cui versava il proprietario del fondo[18], si sarebbe dovuto ammettere che il terzo fosse già titolare di una situazione giuridica soggettiva e che, attraverso il rilascio dell’autorizzazione, occorresse solo rimuovere un ostacolo al relativo esercizio[19]; la qual cosa portava taluno a qualificare il permesso bensì come autorizzazione, ma ritenendo che esso afferisse in via esclusiva all’esercizio di un’attività industriale ovvero – se ben inteso – alla sfera della libertà di iniziativa economica privata[20]. D’altra parte, pure inappagante risultava il tentativo di ricondurre il permesso alla categoria delle concessioni[21], posto che – sulla scorta di un tradizionale insegnamento[22] – questa era ritenuta dalla dottrina funzionale alla costituzione di nuove capacità, poteri e diritti per l’innanzi inesistenti: contraddittorio, in sostanza, sarebbe stato ammettere che l’acquisizione al patrimonio indisponibile dello Stato si determinasse solo con la scoperta del giacimento (e con la attestazione della sua coltivabilità) e contestualmente concludere che con il permesso di ricerca si determinasse ex novo nel privato un inedito diritto. Per questa ragione, una voce rimasta piuttosto isolata – ed anzi oggi considerata superata alla luce dell’attuale sistema normativo[23] – proponeva di ricondurre il permesso entro la categoria delle licenze[24].
2. La competenza legislativa esclusiva sulle “miniere” nello Statuto della Regione Siciliana e la legge regionale n. 30 del 1950 sugli idrocarburi liquidi e gassosi
Lo Statuto della Regione Siciliana dichiara che “fanno parte del patrimonio indisponibile della Regione (…) le miniere, le cave e torbiere, quando la disponibilità ne è sottratta al proprietario del fondo” (art. 33)[25] e riconduce la disciplina di tali “materie” entro la competenza legislativa esclusiva della Regione (art. 14) [26]. Queste previsioni hanno posto non pochi problemi di carattere interpretativo: il primo ha interessato l’appartenenza al patrimonio regionale dei giacimenti minerari scoperti dopo l’entrata in vigore dello Statuto, in ragione del fatto che l’art. 33 facesse (e fa tuttora) espresso riferimento ai beni dello Stato “oggi esistenti nel territorio della Regione”[27]; il secondo ha investito l’esatta delimitazione delle materie appena indicate e i limiti che l’Assemblea regionale avrebbe incontrato nella disciplina delle stesse (v. § succ.).
Quanto al primo dei due problemi, taluni hanno osservato come, a parte l’incongruenza cui avrebbe messo capo l’idea che solo i giacimenti scoperti prima dell’entrata in vigore dello Statuto potessero appartenere al patrimonio della Regione, il trasferimento ad opera dello Stato aveva ad oggetto non già singoli, ma intere categorie di beni[28]. Questa ricostruzione, seppure condivisibile nel risultato cui perviene, trascura però di considerare che l’art. 33 dello Statuto mantiene distinte due ipotesi: i beni del patrimonio disponibile dello Stato “esistenti” [29] sul territorio regionale al momento dell’entrata in vigore dello Statuto (comma 1) e quelli del patrimonio indisponibile dello stesso, elencati espressamente nella disposizione statutaria e la cui appartenenza al patrimonio della Regione si darebbe a prescindere dalla circostanza che fossero “esistenti” al momento dell’entrata in vigore dello Statuto (comma 2)[30]. In questo modo, la consistenza del patrimonio regionale si comporrebbe sia di singoli beni statali storicamente “esistenti” al momento dell’entrata in vigore dello Statuto sia delle categorie di beni ivi elencati e, quindi, anche dei giacimenti già scoperti o ancora da scoprire. Occorre, inoltre, precisare che la condizione posta dall’art. 33, e cioè che i beni siano sottratti al proprietario del fondo, interessa solo le cave e le torbiere e non anche le miniere. Ciò in quanto, in questa sua parte, la disposizione riecheggia anche formalmente la disciplina già prevista dal codice civile del 1942, che, com’è noto, riconduce detti beni ad un differente regime giuridico, in linea, del resto, con quanto già previsto dalla legislazione mineraria del 1927[31].
Circa, invece, la definizione della materia “miniere” ricompresa nel catalogo dell’art. 14 St., è possibile sostenere che in essa siano riconducibili gli oggetti già disciplinati dalla legge mineraria e, dunque, per quel che qui interessa, anche gli idrocarburi liquidi e gassosi nei termini precisati dal D.R. del 1927[32]. Prova ne è che la legge regionale sulla ricerca e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi del 1950[33] presupponeva proprio la qualificazione degli oggetti operata dalla legge mineraria, dato che essa dichiarava che “le disposizioni di cui al R.D. 29 luglio 1927, n. 1443, e successive modificazioni, continuano ad applicarsi in quanto non incompatibili con quelle della presente legge” (art. 1). La qual cosa dimostra che, sebbene con ciò si fosse inteso disciplinare con modalità in parte differenti la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi rispetto al R.D., la legge regionale manifestava una chiara volontà di non alterare le linee fondamentali del diritto minerario[34].
La legge varata dalla Regione recepiva in larga parte la disciplina recata dal R.D. del 1927[35], mantenendo anzitutto distinto il regime della ricerca da quello della coltivazione[36]. Quanto al primo, si stabiliva che il permesso di ricerca potesse essere rilasciato con decreto dell’Assessore regionale per l’Industria ed il Commercio, sentito il Consiglio Regionale delle Miniere[37], per una durata massima di tre anni (art. 2) e in relazione ad un’area continua non superiore ai 100.000 ettari (art. 3). Alla domanda diretta ad ottenere il permesso occorreva allegare una serie di documenti: una planimetria della zona interessata dalla ricerca, una relazione tecnica, un programma di massima dei lavori da eseguire. Il permissionario che avesse ottenuto il permesso, era tenuto al rispetto di alcuni obblighi, come, ad esempio, iniziare i lavori entro due anni dall’adozione del decreto, informare ogni sei mesi l’Ufficio minerario della Regione, corrispondere alla Regione il diritto annuo anticipato di lire 100. Analogamente a quanto stabilito dal R.D. del 1927, il permissionario non avrebbe potuto cedere il proprio titolo senza preventiva autorizzazione dell’Assessore suddetto. In alcuni punti, la legge si discostava, però, da quella dello Stato, laddove, ad esempio, riconosceva al permissionario il “diritto di ottenere in concessione i giacimenti liquidi o gassosi” scoperti in fase di ricerca. La qual cosa, secondo il R.D., costituiva, invece, una eventualità, atteso che il permissionario sarebbe stato da “preferire” ad ogni altro richiedente solo se avesse posseduto i requisiti di capacità tecnica e finanziaria necessari alle attività di coltivazione[38].
In ordine alla concessione, rilasciata sempre con decreto dell’Assessore per l’Industria ed il Commercio, sentito il Consiglio Regionale delle Miniere, la legge stabiliva che essa avesse una durata non inferiore ai venti anni e non superiore ai trenta, aggiungendo che alla scadenza potesse essere prorogata. Ottenuta la concessione, il beneficiario avrebbe dovuto informare ogni sei mesi l’ufficio minerario sull’andamento dei lavori e sui risultati ottenuti, ottemperare alle disposizioni di legge e alle prescrizioni dell’autorità, corrispondere alla Regione il diritto annuo anticipato di lire 500 per ogni ettaro di superficie compresa nell’area di concessione e un canone annuo “in natura o anche in danaro[39] sostitutivo della partecipazione ai profitti di cui all’art. 18 lettera g), del R.D. 29 luglio 1927, n. 1443” (art. 7)[40]. Anche in questo caso, la legge regionale specificava con più precisione gli elementi della concessione, limitando maggiormente la discrezionalità dell’amministrazione procedente rispetto a quanto previsto dal R.D.[41]
3. Segue: il problema dei limiti alla competenza legislativa in materia, con specifico riferimento: a) al limite territoriale; b) all’interesse nazionale; c) agli obblighi internazionali dello Stato
L’art. 14 dello Statuto precisa che l’Assemblea regionale ha legislazione esclusiva “nell’ambito della Regione e nei limiti delle leggi costituzionali dello Stato, senza pregiudizio delle riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente del popolo italiano”.
Nonostante il tenore letterale della disposizione statutaria, in dottrina e in giurisprudenza si è affermata la completa soggezione della potestà legislativa esclusiva della Regione a limiti ulteriori rispetto a quelli ivi espressamente formulati[42]. Ad essi, infatti, si sono aggiunti il limite dei principi dell’ordinamento giuridico, quello degli obblighi internazionali (e comunitari) e quello dell’interesse nazionale. Gli stessi limiti testualmente contemplati dallo Statuto hanno conosciuto, inoltre, una interpretazione per così dire “adeguatrice”, che ha ridotto di molto le potenzialità insite nell’attribuzione della potestà legislativa regionale[43].
In merito alle attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi, la questione si è posta specialmente con riguardo: a) al limite territoriale; b) agli obblighi internazionali; c) all’interesse nazionale[44].
a) Con la sentenza n. 21 del 1968[45], la Corte costituzionale ha sostenuto che “al tempo della promulgazione dello Statuto siciliano (…) l’esistenza a favore dello Stato del diritto inerente” a risorse energetiche sottomarine fosse “internazionalmente oggetto di serie discussioni”. Secondo il giudice costituzionale non era “supponibile che lo Stato (avesse) attribuito alle Regioni una potestà legislativa e amministrativa su una materia che nemmeno esso poteva ritenere certamente ed indiscutibilmente nella sua sfera, e che comunque internazionalmente, neanche entro un minimo di utilizzabilità, era geograficamente e giuridicamente definita”. In questo modo, la Corte aveva facile gioco nel ritenere che sussistesse una materia – definita “miniera sottomarina”[46] – niente affatto coincidente con quella considerata dall’art. 14 dello Statuto siciliano.
L’affermazione della Corte finiva per innestarsi, invero, sul presupposto – non esplicitato – dell’esistenza di un doppio elenco di materie, collegato il primo alla terraferma e il secondo al mare. Né nello Statuto né in Costituzione, tuttavia, un siffatto criterio risulta elevato a regola generale del riparto delle competenze legislative e amministrative. Vero è che la nozione di “miniera” accolta dallo Statuto deve dirsi coincidente con quella disciplinata dal R.D. del 1927, il quale riferisce la ricerca e la coltivazione delle sostanze minerarie al “sottosuolo”[47], ma quella nozione – nel suo riferimento al “sottosuolo” – va posta in relazione al “territorio dello Stato”[48], ossia ad un concetto giuridico forgiato dal diritto statale e dal diritto internazionale e non ad un concetto naturalistico.
Ora, la Costituzione italiana afferma che la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato (art. 114), con ciò volendo significare che un ente territoriale non esista in natura, ma si dia solo a seguito di una qualificazione giuridica resa dal diritto (il quale, eventualmente, può anche presupporre una nozione naturalistica) [49]. Se si ritenesse che il diritto assuma necessariamente (e non solo eventualmente) una nozione naturalistica di “territorio” non si comprenderebbe a quale nozione territoriale lo “Stato” possa esattamente corrispondere. Se, poi, entro questa prospettiva si affermasse che il territorio della Regione coincida sempre con i suoi confini naturali – eventualità, questa, esclusa comunque dall’art. 132 Cost. – ovvero limitati alla sola terraferma, dovrebbe anche ammettersi che l’ambito territoriale naturale dello Stato coincida o con la Repubblica nel suo insieme (ma in senso contrario depone l’art. 114 Cost.) oppure unicamente con il mare territoriale.
L’espressione “territorio dello Stato” sta, invero, a designare l’ambito spaziale di validità del diritto[50] ovvero un ambito, che costituito dalla terraferma, dal mare territoriale e dallo spazio aereo sovrastante, si traduce sul piano interno nella distribuzione delle competenze legislative e amministrative tra gli tutti gli Enti territoriali di cui si compone la Repubblica[51]. Pertanto, tranne il caso in cui non sia la stessa Carta costituzionale o lo Statuto della Regione ad autonomia speciale a limitare detto esercizio alla sola terraferma (come ad es. accadeva nel vigore del vecchio art. 117 Cost. per la materia “pesca nelle acque interne”)[52], deve giocoforza presumersi che, in ordine alle materie attribuite, la potestà legislativa[53] ed amministrativa[54] di detti Enti sia potenzialmente idonea ad interessare il “territorio” nella sua totalità.
b) Con la sentenza 4 luglio 1950, n. 4, l’Alta Corte per la Regione Siciliana aveva escluso che la disciplina regionale degli idrocarburi si ponesse in contrasto con l’interesse nazionale[55]. L’efficacia della legge, sosteneva la Corte, era limitata alla Regione Siciliana e la circostanza che i risultati economici derivanti dall’esercizio delle attività petrolifere potessero ripercuotersi sull’economia nazionale era “conseguenza di ogni attività che si svolga o si ometta nel territorio dello Stato”. Ciò, pertanto, non poneva alcun problema di contrapposizione con lo Stato: la Regione esercitava “poteri suoi, costituzionalmente attribuitile, nella circoscrizione che è parte dello Stato; e l’interesse regionale è anche interesse nazionale”[56]. A conclusione diametralmente opposta sarebbe però pervenuta la Corte costituzionale con la pronuncia del 1968 sopra ricordata, sostenendo che le materie richiamate dall’art. 14 dello Statuto – e segnatamente quella relativa alle “miniere” – ricevessero “restrizioni naturali dai motivi che hanno determinato l’istituzione delle Regioni, consistenti nella cura dell’interesse esclusivamente o almeno prevalentemente localizzato nella sfera regionale”. La competenza sugli idrocarburi in mare sarebbe stata da escludere in ragione del fatto che le finalità cui andavano collegandosi la ricerca e l’estrazione degli stessi non attenevano “all’interesse esclusivo o prevalente delle Regioni”. Del resto, gli idrocarburi erano da qualificare come fonti di energia, e cioè come “beni che, ex art. 43 Cost., a fini di utilità generale, possono formare oggetto di riserva a favore dello Stato”.
La sentenza del giudice costituzionale è stata aspramente criticata dalla dottrina, che ha acutamente osservato come essa si risolvesse in una autentica “petizione di principio”: non solo, in questo modo, la Corte finiva per arrogarsi l’esercizio di “una libera funzione di arbitrato nei contrasti di interesse fra Stato e Regioni”, ma, così decidendo, tentava anche di trarre un argomento dirimente in favore della competenza statale “dalla natura o dal peso economico” degli stessi interessi[57].
D’altra parte, sostenere che la Regione potesse disciplinare le materie elencate nell’art. 14 dello Statuto solo in quanto l’esercizio della sua potestà legislativa fosse collegato ad un interesse circoscritto al territorio regionale equivaleva a giustificare sempre l’attrazione della competenza in capo allo Stato ovvero ritenere in ogni tempo sussistente un limite di carattere sostanziale[58] (e non, invece, di carattere esterno, come pure, nella prospettiva dell’interesse nazionale, si è asserito con riferimento al limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali)[59]. Affermazione, dunque, apodittica e niente affatto in linea con quanto la dottrina più autorevole andava sostenendo[60], e che non chiariva perché mai se lo sfruttamento degli idrocarburi in mare fosse stato da considerare di interesse nazionale altrettanto non dovesse dirsi per quello in terraferma[61].
c) Circa l’esercizio delle attività petrolifere in relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentale, la Corte costituzionale ha negato che la Regione Siciliana potesse rivendicare qualsivoglia pretesa al riguardo in ragione della sussistenza del limite degli obblighi internazionali. Secondo il giudice delle leggi, la potestà legislativa della Regione sugli idrocarburi non avrebbe potuto avere ad oggetto la piattaforma continentale posto che – come si è ricordato già sopra – “al tempo della promulgazione dello Statuto siciliano (…) l’esistenza a favore dello Stato del diritto inerente a tali risorse era internazionalmente oggetto di serie discussioni”: “solo dopo tale promulgazione” – si legge nella pronuncia – “la piattaforma continentale assunse, nell’ordinamento interno, ma parzialmente, il carattere di bene giuridico, perché solo allora acquistò il requisito dell’appropriabilità, che è essenziale per la qualifica di una cosa come bene giuridico”. Se alla Regione fosse stata riconosciuta quella pretesa, l’azione posta in essere avrebbe avuto l’effetto “di determinare in concreto i termini del rapporto interstatuale” e “di coinvolgere la responsabilità internazionale dello Stato circa il modo di esercizio di quella azione”.
Il ragionamento seguito dal giudice delle leggi non appare, invero, lineare. Anzitutto occorre osservare come al tempo dell’adozione della pronuncia della Corte l’Italia non aveva ratificato la Convenzione di Ginevra del 1958 sulla piattaforma continentale[62]. Ragion per cui – a rigore – nessun obbligo internazionale poteva dirsi ancora sorto[63]. In secondo luogo, anche ad ammettere che esistesse una norma internazionale generale corrispondente alla nozione giuridica di piattaforma recata dalla Convenzione, l’esercizio delle attività petrolifere da parte della Regione avrebbe comprovato, semmai, “l’effettività e l’attualità” dell’esercizio di una potestà già spettante allo Stato e, pertanto, a condizione di mantenersi entro il limite segnato da obblighi di natura consuetudinaria, non avrebbe potuto rilevare sul piano dei rapporti internazionali[64]. Detto piano, infatti, rileverebbe unicamente qualora il limite degli obblighi internazionali si traduca in un limite di contenuto, che, sulla base di uno specifico accordo, escluda o condizioni l’esercizio della potestà legislativa regionale[65]; diversamente, la Regione potrebbe dar benissimo seguito agli impegni assunti dallo Stato.
Solo in questa prospettiva può, allora, dirsi corretta l’affermazione secondo la quale il rispetto degli obblighi internazionali costituisce “un limite indefettibile, pur se il singolo Statuto non lo segni in modo espresso”[66]: da accordi internazionali, infatti, discende sempre per la Regione l’obbligo di rispettare le clausole in essi contenute, senza che, però, per ciò solo possa predicarsi un trasferimento in capo allo Stato di una competenza spettante alla Regione. Il problema, pertanto, è quello di comprendere in che modo – sul piano interno – possano coordinarsi le diverse competenze legislative e amministrative regionali e statali[67], soprattutto in ragione del fatto che – nonostante gli obblighi internazionali rilevino sul punto[68] – mentre il mare territoriale è pur sempre parte del territorio dello Stato, la piattaforma continentale – collegata a diritti dello Stato di natura “funzionale”[69] – si estende al di là del mare territoriale “attraverso il prolungamento naturale del suo territorio terrestre fino all’orlo esterno del margine continentale, o fino a una distanza di 200 miglia marine dalle linee di base”[70].
4. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (prima della riforma del Titolo V Cost.)
Nel 1957 il Parlamento italiano adottava la prima legge nazionale sugli idrocarburi liquidi e gassosi, stabilendo che essa trovasse applicazione in tutto il territorio dello Stato ad eccezione (oltre che della Sicilia, della Sardegna e del Trentino-Alto Adige) delle “zone diverse da quelle delimitate nella tabella A, allegata alla legge 10 febbraio 1953, n. 136”, e, cioè, di quelle aree territoriali riservate all’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI)[71]. La legge precisava, inoltre, che le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi continuassero ad essere soggette anche alle leggi e ai regolamenti minerari in vigore, a patto che questi non fossero in contrasto con le nuove disposizioni varate.
Sul piano dei contenuti, diverse erano le novità introdotte rispetto al R.D. del 1927 ed anche alla legge siciliana del 1950: l’esclusione della coincidenza tra le aree oggetto di ricerca e quelle oggetto di concessione, posto che la prima – della durata massima di tre anni – avrebbe potuto interessare un’area non superiore a cinquantamila ettari e la seconda – di durata massima di venti anni (prorogabile per ulteriori dieci anni) – avrebbe potuto avere ad oggetto un’area non superiore a tremila ettari; l’esclusione della contiguità tra le diverse concessioni accordate; il rafforzamento della posizione giuridica del ricercatore, nel senso di riconoscere a questi un diritto ad ottenere la concessione in caso rinvenimento di idrocarburi in “quantità commerciale”; la previsione che la domanda di concessione fosse corredata del programma di sviluppo del campo di coltivazione; la previsione di una aliquota del prodotto, da far corrispondere al concessionario in favore dello Stato, calcolata sulla produzione giornaliera del pozzo, in natura o in danaro per il valore equivalente (dal 2,50 per cento fino al 22 per cento)[72].
Nel 1967, tuttavia, il Parlamento, nel recare una disciplina della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi nel mare territoriale e nella piattaforma continentale, coglieva l’occasione per modificare anche la normativa dettata dalla legge del 1957, provvedendo in parte a sostituire e in parte ad abrogare alcune sue previsioni[73]. In questo modo, oltre ad introdurre ex novo una disciplina dell’attività di prospezione (“consistente in rilievi geologici, geofisici e geochimici, eseguiti con qualunque metodo o mezzo, escluse le perforazioni meccaniche fatta eccezione per quelle necessarie per compiere i rilievi geofisici”), la nuova legge stabiliva: che il permesso di ricerca “esclusivo” fosse rilasciato con decreto del Ministro per l’industria, il commercio e l’artigianato unitamente all’approvazione del programma dei lavori per una durata massima di quattro anni; che al titolare del permesso, che avesse rinvenuto idrocarburi liquidi o gassosi, sarebbe stata da accordare senz’altro la concessione alla coltivazione secondo l’estensione e la configurazione dell’area determinata con decreto dello stesso Ministro e per una durata massima di trenta anni (prorogabili per altri dieci); che oltre alla corresponsione anticipata di un canone per ciascun anno di durata della concessione, il concessionario avrebbe dovuto corrispondere allo Stato una aliquota del prodotto pari al nove per cento della quantità di idrocarburi estratti[74].
A detto quadro normativo – già piuttosto complicato[75] – si è, quindi, aggiunta la legge 9 gennaio 1991, n. 9, con cui il Parlamento ha abrogato diverse disposizioni contenute nelle leggi del 1957 e del 1967[76] e ha disposto che talune previsioni concernenti la coltivazione degli idrocarburi nel mare territoriale e nella piattaforma continentale fossero estese anche alle concessioni di coltivazione in terraferma[77]. Più in generale – e al di là delle specifiche norme recate in favore della tutela ambientale[78] – il Capo I del Titolo II della legge ha disciplinato in modo unitario – e cioè sia in relazione alla terraferma sia in relazione al mare territoriale e alla piattaforma continentale – le diverse fasi della prospezione, della ricerca e della coltivazione[79], stabilendo che i relativi titoli venissero rilasciati dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, sentito il Comitato tecnico per gli idrocarburi e la geotermia e la Regione o la Provincia autonoma di Trento o di Bolzano territorialmente interessata.
Quest’ultima previsione, che ricorre in diverse disposizioni della legge[80] e che mira al coinvolgimento dell’Ente regionale e provinciale nel procedimento volto al rilascio del titolo minerario, ha provocato la dura reazione della Regione Valle d’Aosta e delle Province autonome di Trento e Bolzano, le quali, in sede di legittimità costituzionale, hanno denunciato l’indebita avocazione in capo allo Stato delle competenze legislative in materia di idrocarburi ovvero la lesione di competenze costituzionalmente garantite, determinata dal ruolo meramente consultivo riservato ad esse dalla legge, “del tutto parificato a quello delle regioni a statuto ordinario prive di attribuzioni costituzionali nel settore delle miniere” [81].
Nella sua pronuncia, la Corte ha sostenuto che la legge censurata si proponesse non già di recare “misure settoriali su singole materie”, ma di predisporre “una serie di strumenti” finalizzati “ad una gestione globale ed integrata delle risorse energetiche sul territorio”[82]. La qual cosa le ha consentito di impostare il problema in termini rinnovati ovvero di sviluppare uno spunto già contenuto nella precedente sentenza del 1968[83] e di trasferire la questione dall’ambito materiale delle “miniere” al “settore dell’energia”.
Discutibile è, però, anzitutto l’idea che gli “idrocarburi”, qualificati come “una delle materie prime energetiche” ascrivibili al “settore delle miniere”, possano essere ricondotti alla competenza esclusiva dello Stato sull’energia, atteso che in questo modo non si mantiene distinta la competenza sulle attività volte al rinvenimento e all’estrazione delle sostanze minerarie da quella sulle attività finalizzate alla produzione dell’energia. Incoerente, inoltre, è il riferimento alla sussistenza di un preminente interesse nazionale, invocato finanche dall’Avvocatura generale dello Stato, in relazione alla potestà legislativa primaria delle ricorrenti unitamente al limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali, in quanto, una volta attratta la questione entro la competenza esclusiva dello Stato (a quel tempo sull’energia, appunto), a nulla può rilevare la circostanza che l’esercizio di detta competenza involga un interesse di carattere statale ovvero locale. Per questa ragione, anche la conclusione cui è pervenuto il giudice costituzionale – e cioè che alcune disposizioni della legge sono illegittime per non aver previsto il rilascio dell’intesa sui titoli minerari da parte della Regione Valle d’Aosta e delle due Province autonome in luogo del mero parere – non può dirsi appagante. Tanto più che – sebbene le previsioni statutarie in materia di miniere siano tra loro sensibilmente differenti – dalla pronuncia della Corte non si ricava alcun elemento utile a chiarire quale sia la sorte riservata alle altre Regioni a Statuto speciale[84].
Da questo punto di vista, l’ambiguità della posizione sulla quale si è attestato il giudice delle leggi si riflette anche sulla successiva normativa varata dal Parlamento italiano, posto che mentre la disciplina recata dal decreto legislativo 25 novembre 1996, n. 625, di attuazione della direttiva 94/22/CE concernente le condizioni di rilascio e di esercizio delle autorizzazioni alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, riconduce la problematica entro il solco della materia “miniere”, quella contenuta nel decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, attrae la stessa entro il “settore” dell’energia.
Nel decreto n. 625 del 1996 si legge, infatti, che “le regioni a statuto speciale e le province autonome di Treno e Bolzano adeguano la loro disciplina ai principi di cui agli articoli contenuti nel Titolo I del presente decreto, i quali valgono come principi fondamentali di riforma economico-sociale” (art. 39). La qual cosa – a parte la discutibile assimilazione delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali” ai “principi fondamentali”[85] – prova come gli oggetti disciplinati dal decreto afferiscano tutti alla materia “miniere”, sulla quale, come si è visto, insiste una potestà legislativa primaria o di attuazione e integrazione delle Regioni a Statuto speciale e delle due Province autonome.
D’altra parte, però, il d. lgs. n. 112 del 1998 ha stabilito che la materia “miniere e risorse geotermiche” concerne “le attività di ricerca e di coltivazione dei minerali solidi” (art. 32) e che entro la materia “energia” devono essere ricondotte “le attività di ricerca, produzione, trasporto e distribuzione di qualunque fonte di energia (art. 28), comprese le attività di prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio di idrocarburi in mare e in terraferma, le cui funzioni sarebbero da riservare allo Stato (art. 29)[86].
Questa disciplina risulta, però, problematica almeno per due ragioni[87]. Anzitutto perché la legge delega n. 59 del 1997 aveva precisato che fossero esclusi dal conferimento alle Regioni e agli Enti locali “i compiti di rilievo nazionale (…) per la ricerca, la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia”, con ciò presupponendo, evidentemente, che tali compiti non potessero essere riservati automaticamente allo Stato[88]; in secondo luogo, in quanto, sebbene la legge delega discorresse di “ricerca” dell’energia, il decreto del Governo ha ridefinito – nel silenzio, invero, della legge del Parlamento – l’ambito materiale delle “miniere” e attratto entro la materia “energia” attività che sarebbero state più propriamente da ricondurre entro la materia “miniere”, come, appunto, quelle relative agli idrocarburi liquidi e gassosi. Si aggiunga, infine, che, più in generale, la riorganizzazione complessiva delle funzioni amministrative, sganciata dall’assetto costituzionale del riparto delle competenze legislative (come sta a confermare, semmai ve ne fosse bisogno, l’art. 2 della legge delega), ha aperto a non pochi problemi dal punto di vista della coerenza e della funzionalità del sistema. A ciò, come è noto, ha tentato di porre rimedio la Corte costituzionale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione con la sentenza n. 303 del 2003[89].
5. La legge regionale n. 14 del 2000: il problema della compatibilità con il diritto dell’Unione europea
La legge della Regione Siciliana 3 luglio 2000, n. 14 ha recato una nuova disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi, abrogando radicalmente la previgente normativa che discendeva dalla legge del 1950. Con essa si è stabilito che tutti i titoli minerari siano rilasciati con decreto dall’Assessore per l’industria (sentito il Consiglio regionale delle miniere), in favore di persone fisiche o giuridiche, che dispongano delle capacità tecniche ed economiche adeguate agli impegni programmati (art. 3). Una volta che il titolo sia rilasciato, i proprietari dei fondi non possono opporsi alle attività autorizzate, salvo il diritto alle indennità per gli eventuali danni arrecati. Tutte le opere necessarie all’esercizio di tali attività sono considerate di pubblica utilità, indifferenti ed urgenti; e qualora debbano essere eseguite fuori dal perimetro dell’area data in permesso o in concessione, l’Assessore per l’industria può dichiararne la pubblica utilità. Se, invece, si tratti di opere temporanee da eseguire in aree esterne al centro edificato, non occorre alcun provvedimento autorizzatorio, nulla osta o assenso comunque denominato (art. 6). Il decreto di conferimento del titolo può fissare condizioni, requisiti o obblighi “particolareggiati” per lo svolgimento delle attività, ma solo se giustificati dalla necessità di assicurare il corretto esercizio delle stesse in relazione alla tutela di alcuni beni, come l’ambiente, il patrimonio artistico, archeologico, ecc. (art. 8).
Alle attività di prospezione è dedicato il Titolo II della legge, alla ricerca il Titolo III, alla coltivazione il Titolo IV. Circa la ricerca, la legge stabilisce che le attività relative possano essere negate solo per “motivate ragioni di interesse pubblico” (art. 18). La durata del permesso è di sei anni (art. 22) e pone in capo al permissionario una serie di obblighi, come, ad esempio, iniziare i lavori entro un anno dal rilascio del titolo, dare svolgimento al programma dei lavori e informare ogni sei mesi l’URIG dell’andamento degli stessi, attenersi a quanto stabilito dal decreto di conferimento del permesso e dal disciplinare tipo, ecc. (art. 23). Quanto alle attività di coltivazione, queste possono essere svolte solo sulla base di una concessione da accordare al titolare del permesso che abbia rinvenuto gli idrocarburi liquidi o gassosi, sempreché presenti domanda in tal senso. Essa non può superare venti anni, anche se è prorogabile – complessivamente – per altri venti (art. 27). Altre due previsioni devono essere qui, infine, menzionate: quella relativa ai canoni e alle aliquote (art. 30)[90] e quella relativa alla riservatezza dei dati (art. 45). Per quest’ultima risulta testualmente disposto che “i dati e le notizie di carattere tecnico ed economico relativi alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione, forniti all’Amministrazione dai titolari dei permessi di ricerca e concessioni che rivestono carattere di riservatezza (…) non possono essere resi pubblici senza il consenso scritto degli interessati” e che quelli “relativi a permessi e concessioni revocati, scaduti o rinunciati” possono esserlo solo dopo che siano trascorsi due anni dalla cessazione dei titoli.
La legge regionale si presta ad una serie di considerazioni, relative sia alla disciplina posta dal diritto dell’Unione europea, sia a quella che, (anche) in materia di energia, informa i rapporti tra Stato e Regioni dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, alla luce dello specifico orientamento seguito dal giudice delle leggi.
Per quanto concerne il diritto dell’Unione, nella legge si dichiara che la disciplina delle attività di prospezione, ricerca, coltivazione, trasporto e stoccaggio degli idrocarburi è data, oltreché “nella salvaguardia degli interessi nazionali”, in conformità “alle direttive europee”. Mentre dall’intitolazione della legge si evince che la normativa regionale è recata in attuazione della direttiva 94/22/CE[91].
Da questo punto di vista, essa presuppone che la questione delle aree del territorio regionale da rendere disponibili all’esercizio delle attività minerarie sia previamente risolta dallo Stato, in ragione del fatto che la direttiva sembra attribuire in via esclusiva[92] in capo agli “Stati membri” il diritto di determinare quali parti del “loro territorio” debbano essere aperte o chiuse all’esercizio di tali attività (art. 2 dir.). L’art. 3 del d. lgs. n. 625 del 1996, infatti, ha dato seguito a quanto richiesto dal diritto europeo, stabilendo che le aree del territorio nazionale e le zone del mare territoriale e della piattaforma continentale aperte alla prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sono coincidenti con quelle già individuate dalla legge n. 623 del 1967 e che sono rese “disponibili in maniera permanente”.
Per altri aspetti, però, la legge pare di dubbia conformità alla direttiva europea, per esempio laddove prevede che il permesso di prospezione, rilasciato per la durata di un anno, non sia “esclusivo” (art. 14), posto che la direttiva prescrive espressamente che tutti i titoli siano “esclusivi” (art. 1 dir.), e forse anche laddove omette di stabilire l’estensione massima dell’area oggetto di concessione, fissando la durata (potenziale) della concessione (proroghe comprese) fino a quaranta anni (art. 27), atteso che, secondo quanto si legge nella direttiva, “l’estensione delle aree costituenti oggetto di autorizzazioni e la durata di quest’ultime devono essere limitate in modo da evitare di riservare ad un unico ente un diritto su aree per le quali la (…) coltivazione (può) essere avviat(a) in modo più efficace da diversi enti”. Senza contare che il dubbio di legittimità potrebbe ulteriormente rafforzarsi in ragione del fatto che il d. lgs. del 1996 – che pure impone alle Regioni a Statuto speciale di adeguare la disciplina regionale in materia ai principi deducibili dagli articoli collocati al suo Titolo I, in quanto “principi fondamentali delle riforme economico-sociali”[93] – stabilisce che la concessione “in terraferma, nel mare territoriale e nella piattaforma continentale” abbia una durata massima di trenta anni (proroga compresa) e che non possa superare “i 150 chilometri quadrati”.
In relazione ai rapporti con il diritto statale, e con riserva di approfondire la questione con riguardo alla materia energetica, alcune previsioni della legge, che incidono sia sulla disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi sia su quella della tutela ambientale, si presentano alquanto problematiche.
La legge regionale 5 aprile 2011, n. 5, ha modificato la legge 30 aprile 1991, n. 10, recante “Disposizioni per i provvedimenti amministrativi, il diritto di accesso ai documenti amministrativi e la migliore funzionalità dell’attività amministrativa” ed ha abrogato le disposizioni regionali sul diritto di accesso, rinviando alla disciplina posta dalla legge statale 7 agosto 1990, n. 241. Con ciò si è accettato, pertanto, di applicare al territorio regionale finanche le limitazioni che al diritto di accesso risultano fissate dalla legge statale[94].
Ora, questa circostanza potrebbe lasciar credere che la disciplina legislativa del diritto di accesso, come ricavabile dall’art. 45 della legge n. 14 del 2000 sugli idrocarburi, sia, tuttavia, legittima, in quanto derogatoria di (e, dunque, speciale rispetto a) quella più generale posta dalla legge del 2011. Una conclusione di questo tipo sarebbe, però, da escludere, atteso che la legge n. 241 del 1990 espressamente stabilisce che la legislazione regionale – tutta – si adegui alle disposizioni dell’art. 29, ove si afferma che le disposizioni sul diritto di accesso attengono ai livelli essenziali delle prestazioni e che le Regioni, nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza, non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati, ma possono solo prevedere livelli ulteriori di tutela[95].
Se si va, infatti, a vedere quel che stabilisce la legge del 1990, si scopre che accessibili risultano essere “tutti i documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) e cioè “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d)), tranne quelli espressamente indicati all’art. 24, commi 1, 2, 3, 5 e 6 (art. 22, comma 3), come i documenti coperti dal segreto di Stato o quelli contenenti informazioni di carattere psico-attitudinale relativi a terzi ovvero anche quelli individuati con regolamento governativo “quando i documenti riguardino la vita privata o la riservatezza di persone fisiche, persone giuridiche, gruppi, imprese e associazioni, con particolare riferimento agli interessi epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale di cui siano in concreto titolari, ancorché i relativi dati siano forniti all’amministrazione dagli stessi soggetti cui si riferiscono” (art. 24, comma 6, lett. c))[96]. La qual cosa dovrebbe provare ulteriormente come non sia nella disponibilità della Regione provvedere in ordine a ipotesi di esclusione, che attengano ai casi indicati dall’art. 24[97].
Per quanto concerne, invece, la materia ambientale, discutibile è la possibilità, ammessa dalla legge siciliana, di consentire attività di prospezione “con metodi, mezzi e tecnologie diverse” anche in aree naturali protette (art. 14, comma 7).
Nonostante, infatti, in essa si precisi che le attività relative debbano svolgersi “nel rispetto delle norme vigenti in materia di tutela dell’ambiente e del paesaggio”, tale possibilità parrebbe esclusa soprattutto a seguito della decisione del Legislatore statale[98] di voler ricondurre la prospezione entro il permesso di ricerca[99]: in ragione di ciò, dovrebbero dirsi oggi estensibili alle attività di prospezione anche gli artt. 5 ss. della legge n. 9 del 1991 concernenti la ricerca, sebbene non possa sottacersi come numerosi dubbi di carattere interpretativo restino comunque sullo sfondo, posto che i commi 11, 12 e 13 dell’art. 6 della legge n. 9 del 1991 risultano formulati in modo piuttosto ambiguo.
Il comma 11 prevede che ove sussistano gravi motivi di carattere ambientale o archeologico-monumentale, il permesso di ricerca può essere revocato; il comma 12 afferma che le norme di cui ai commi da 5 a 10 si applicano anche ai permessi di ricerca in corso alla entrata in vigore della legge; il comma 13 stabilisce che “sono sospesi i permessi di ricerca nelle zone dichiarate parco nazionale o riserva marina”.
Sulla base di dette disposizioni sembrerebbe che, mentre la revoca abbia riguardo a quelle attività di ricerca che si svolgano fuori dai parchi nazionali e dalle riserve marine protette (in questo caso, i gravi motivi che consigliano la revoca del titolo non potrebbero che essere successivi al rilascio del titolo, come sarebbe ad esempio se entro l’area di ricerca si scoprisse un sito archeologico), la sospensione interessi quelle attività di ricerca che si svolgano entro un parco nazionale o una riserva marina[100]. In entrambi i casi, in virtù di quanto stabilito dal comma 12 dell’art. 6, la revoca e la sospensione concernerebbero unicamente le attività autorizzate dopo l’entrata in vigore della legge.
Questa ricostruzione, però, non potrebbe dirsi convincente. Volendo qui tralasciare – per ragioni collegate alla sua inattualità – la questione della revocabilità dei titoli accordati prima dell’entrata in vigore della legge, il problema avrebbe ad oggetto la sospensione del permesso di ricerca, quando le attività relative concernessero parchi nazionali o riserve marine che preesistano al rilascio del titolo.
Anche ammesso, infatti, che la sospensione ope legis del titolo non riguardi i permessi di ricerca, che, ricadenti entro parchi nazionali o riserve marine, siano stati accordati prima dell’entrata in vigore della legge, non potrebbe interpretarsi la disposizione in parola – sottolineando magari come questa discorra solo di sospensione e non anche di divieto – riferendola unicamente a quei parchi e a quelle riserve che fossero istituiti dopo il rilascio del titolo, giacché, in questo modo, si arriverebbe alla seguente paradossale conclusione: che se il parco fosse istituito prima del rilascio del titolo l’attività di ricerca sarebbe sempre possibile; che, qualora, invece, fosse istituito dopo il rilascio del titolo l’attività di ricerca sarebbe sempre vietata (rectius: sospesa). È chiaro, invece, che quella sospensione – proprio perché possa avere un senso la disposizione che la sancisce – presuppone che in presenza di un parco nazionale o di una riserva marina sia fatto divieto di svolgere ogni attività di ricerca[101]. E che, per conseguenza, nonostante la legge taccia sul punto, debba intendersi vietata in dette aree finanche la coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi[102]. Anche da questo punto di vista, la legge siciliana potrebbe porre dubbi di legittimità.
6. La disciplina degli idrocarburi liquidi e gassosi nella legislazione dello Stato (dopo la riforma del Titolo V Cost.)
L’art. 117, comma 3, della Costituzione – nel testo risultante dalla riforma costituzionale del 2001 – ha annoverato la materia “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” tra le “materie di legislazione concorrente”, con ciò recependo quasi pedissequamente la formulazione recata dal d.lgs n. 112 del 1998.
L’attrazione di detta materia entro la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni ha sollevato perplessità in dottrina[103] e ha conosciuto una serie di interventi del giudice costituzionale, che, divenuti sempre più numerosi dal 2004[104], hanno finito per incidere profondamente sulle relazioni tra i livelli territoriali di governo, nell’ottica di un approccio globale al settore energetico, inteso non tanto (e non più) come “materia”, quanto, invece, quale “politica energetica nazionale”[105]. In questo modo, si è finito per aderire ad una macronozione di “materia”, la cui disciplina, fatta propria dal Parlamento con legge 23 agosto 2004, n. 239, sulla scorta di quanto già previsto dal citato d.lgs. del 1998, lungi dal modellarsi attraverso una rigida separazione delle competenze legislative tra il livello statale (chiamato a porre i principi) e il livello regionale (chiamato a recare la normativa di dettaglio), resta ancorata agli “obiettivi” da raggiungere.
Nella legge, infatti, si dice chiaramente che “gli obiettivi e le linee della politica energetica nazionale, nonché i criteri generali per la sua attuazione a livello territoriale, sono elaborati e definiti dallo Stato che si avvale anche dei meccanismi di raccordo e di cooperazione con le autonomie regionali” e che la loro concreta realizzazione è assicurata “sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione, adeguatezza e leale collaborazione dallo Stato, dall’Autorità per l’energia elettrica e il gas, dalle regioni e dagli enti locali” (art. 1, commi 1 e 3).
Tra le attività del settore energetico vengono quindi annoverate anche quelle relative agli idrocarburi liquidi e gassosi, le cui “determinazioni” – in relazione alla prospezione, alla ricerca e alla coltivazione degli stessi – sono riservate allo Stato, sebbene di intesa con le Regioni interessate[106].
I commi 77-82 dell’art. 1 della legge – come modificati dalla legge 23 luglio 2009, n. 99 – recano una nuova e parziale disciplina dei procedimenti autorizzatori, prevedendo quanto segue: 1) il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in terraferma è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali e regionali interessate; esso consente solo lo svolgimento delle attività di prospezione, esclusa la perforazione dei pozzi esplorativi, per la quale occorre apposita autorizzazione da parte dell’ufficio territoriale minerario per gli idrocarburi e la geotermia competente, rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale, oltre alla Regione, partecipano anche gli enti locali interessati; 2) il permesso di ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in mare è rilasciato a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni statali interessate. Anche in questo caso è esclusa la perforazione del pozzo esplorativo, per la quale occorre apposita autorizzazione, previa valutazione di impatto ambientale.
Il comma 81 dell’art. 1 stabiliva che, più in generale, l’attività di prospezione fosse soggetta alla procedura di screening ambientale, tranne qualora avesse trovato svolgimento all’interno di are marine a qualsiasi titolo protette (per ragioni di carattere ambientale, di ripopolamento, archeologico, ecc.). Nel qual caso, sarebbe stato obbligatorio procedere a valutazione di impatto ambientale o comunque ad altro tipo di valutazione. Questa previsione è stata tuttavia abrogata e per la disciplina relativa occorre ora far riferimento a quanto stabilisce l’art. 6, comma 17, del Codice dell’ambiente del 2006, come modificato dal d.l. 22 giugno 2012, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134.
Esso, come si è accennato più dietro[107], fa divieto di svolgere attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi nelle aree marine e costiere “a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale” ed estende detto divieto alle zone di mare poste entro le dodici miglia dalla costa per l’intero perimetro costiero nazionale (che in presenza di un’area marina protetta si calcola a partire dal perimetro esterno), facendo tuttavia salvi i procedimenti concessori in corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo 29 giugno 2010, n. 128. In questo modo, il divieto di svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi non trova applicazione ai procedimenti avviati e non ancora conclusi alla data di entrata in vigore del decreto; sebbene l’autorizzazione allo svolgimento delle attività relative debba essere preceduta dalla VIA e debba essere acquisito il parere degli Enti locali posti in un raggio di dodici miglia dalle aree marine e costiere interessate dalle stesse[108].
Ebbene, l’abrogazione del comma 81 dell’art. 1 della legge del 2004 dovrebbe comportare quanto segue: 1) che per i procedimenti in itinere che ricadano entro le 12 miglia dalla costa e che siano relativi ad aree marine protette a qualsiasi titolo e per scopi anche diversi da quelli ambientali – per esempio archeologici – le attività relative continuano ad essere sottoposte a valutazione di impatto ambientale o ad altro tipo di valutazione; 2) che per i procedimenti successivi all’entrata in vigore del decreto, e che siano relativi ad attività che interessino aree marine collocate oltre le 12 miglia dalla costa, non si procederebbe più ad obbligatoria valutazione di impatto ambientale o ad altro tipo di valutazione, nel caso in cui l’area risulti comunque protetta, mentre intatto, in ragione della specifica disciplina dettata dal codice dell’ambiente[109] e dalla direttiva 2011/92/UE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati, resterebbe l’obbligo di sottoporre i progetti medesimi a screening ambientale[110].
Quanto alla coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, il comma 82-ter – nella versione introdotta dalla legge 23 luglio 2009, n. 99 – stabilisce che la concessione sia rilasciata “a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni competenti ai sensi del comma 7, lettera n) del presente articolo, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241”.
Il dubbio che qui si affaccia concerne, invero, la cerchia dei soggetti istituzionali legittimati a prender parte al procedimento finalizzato al rilascio del titolo minerario: tale comma, infatti, non distinguendo tra coltivazione di idrocarburi in terraferma e coltivazione di idrocarburi in mare, sembrerebbe postulare che il procedimento da seguire sia il medesimo per entrambi i casi. E a sostegno di questa conclusione militerebbe anche il successivo comma 82-quater, che fa, invece, espresso riferimento alla sola coltivazione in terraferma[111].
Da questo punto di vista, il problema che si pone è se il rilascio del titolo debba essere preceduto o meno dall’intesa con le Regioni interessate, posto che se, per un verso, il comma 82-ter espressamente rinvia alle “amministrazioni competenti ai sensi del comma 7, lettera n)” – e, dunque, anche alle “Regioni interessate” –, per altro verso, in esso risulta chiaramente stabilito che le determinazioni inerenti la coltivazione di idrocarburi sono adottate sì “di intesa con le regioni interessate”, ma unicamente qualora ciò concerna la terraferma[112].
7. La riforma del Titolo V Cost., la “clausola di maggior favore” e l’impatto della legislazione statale sulla competenza legislativa primaria della Regione Siciliana: il problema della illegittimità costituzionale della legge regionale n. 14 del 2000
In ragione di quanto previsto dall’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, ove si legge che “sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, le disposizioni della presente legge costituzionale si applicano anche alla Regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite” [113], la competenza legislativa concorrente in materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” – non considerata originariamente dallo Statuto regionale – risulta ora estesa anche alla Regione Siciliana. Come ha chiarito il giudice costituzionale, detta estensione investe sì il piano delle funzioni legislative[114] e amministrative[115] dei “nuovi poteri”, ma trascina con sé i limiti consuetamente applicabili a quel tipo di potestà, e cioè quelli “espressi od impliciti, contenuti nel nuovo Titolo V”[116]: la prevalenza (funzionale) della materia “energia” su altre materie, che, affidate alla competenza esclusiva della Regione, risultassero con essa connesse[117], il rispetto dei principi fondamentali fissati con legge del Parlamento[118], la possibilità che lo Stato effettui la c.d. “chiamata in sussidiarietà” delle funzioni amministrative e legislative[119], il ricorso al potere sostitutivo nel rispetto dell’art. 120 Cost. ed anche dell’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131[120].
Ebbene, la circostanza che il Legislatore statale – in ciò sostenuto dall’orientamento giurisprudenziale Corte[121] – riconduca gli idrocarburi nella più generale disciplina della materia energetica (riconduzione, come si è detto più sopra, del tutto discutibile, posto che l’art. 117, comma 3, Cost., ascrive alla competenza concorrente unicamente la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” e non già le attività di ricerca e di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, che, in quanto tali, non sarebbero produttive di energia)[122] farebbe sì che l’esercizio della competenza regionale esclusiva sugli idrocarburi, legittimata dalla previsione statutaria sulle “miniere”, si converta nell’esercizio di una competenza regionale concorrente: con tutti i limiti di cui si è detto più sopra e nonostante la legge n. 239 del 2004 contempli espressamente la c.d. “clausola di salvezza”[123].
La qual cosa, nel caso siciliano, finisce, allora, per sollevare un problema non altrimenti eludibile[124]: quello della legittimità costituzionale della legge regionale n. 14 del 2000, alla luce della nuova disciplina ricavabile dal Titolo V Cost.
Da questo punto di vista, però, a meno di non ritenere che la legge regionale soggiaccia al principio sancito dall’art. 10 della legge 10 febbraio 1953, n. 62, il quale, al di là delle assai convincenti critiche mosse dalla dottrina più autorevole[125], stabilisce l’abrogazione delle leggi regionali che si pongano in contrasto con i nuovi principi recati dalle leggi della Repubblica[126] (in questo caso: dalla legge n. 239 del 2004), dovrebbe predicarsi la perfetta validità della legge siciliana, atteso che lo stesso giudice costituzionale ha da tempo stabilito che “l’eventuale incidenza delle nuove norme costituzionali, in termini di modifiche delle competenze rispettive di Stato e regione, sarebbe (…) suscettibile di tradursi solo in nuove e diverse possibilità di intervento legislativo della regione o dello Stato, senza che però venga meno, in forza del principio di continuità, l’efficacia della normativa preesistente conforme al quadro costituzionale in vigore all’epoca della sua emanazione” [127].
Se così fosse, dovrebbe anche convenirsi che solo le modifiche legislative future siano da assoggettare al nuovo riparto delle competenze legislative e che unicamente in una evenienza siffatta la legittimità della normativa varata dalla Regione possa essere sindacata alla luce dei principi fondamentali introdotti dalla legge n. 239 del 2004. Con tutto ciò che ne consegue, ovviamente, finanche sul piano degli interventi derogatori disposti dal Legislatore statale.
Questa interpretazione non può, tuttavia, dirsi convincente. Salvi, infatti, gli eventuali diversi profili di illegittimità che dovessero emergere (e che più sopra sono stati posti in luce), è preferibile ritenere che l’Assemblea regionale sia libera di mantenere intatta o di modificare la legge n. 14 del 2000. E ciò – al di là della questione della perdurante applicabilità dei limiti statutari[128] – anche senza l’osservanza dei principi fissati dalla legge dello Stato, in quanto la “clausola di maggior favore” di cui all’art. 10, legge cost. cit., impedirebbe l’adozione di qualsivoglia deroga a disposizioni dello Statuto, quando queste attribuiscano puntuali competenze in capo alla Regione[129].
[1] Con ciò si incideva sulle leggi ancora vigenti nelle province dello Stato, ispirate a regimi giuridici profondamente differenti tra loro (sistemi fondiario, regalistico, demaniale e industriale): cfr. in proposito G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. IV, III ed. agg., Milano, 1948, 108 ss.; A. Barucchi, L’attività mineraria nel sistema della legislazione dell’energia, Torino, 1964, 35 ss., sub nt. 1; v. utilmente anche G. Salvioli, Manuale di storia del diritto italiano, II ed. ampl., Torino, 1892, 395 ss.; A. Cherchi, Il nuovo regime giuridico delle miniere, in Riv. dir. pubbl., 1928, I, 52 ss., 54, il quale, tra l’altro, ricorda come dal 1862 al 1921 fossero stati presentati in Parlamento ben 23 progetti di legge concernenti l’unificazione della legislazione mineraria (p. 53); più ampiamente A. Gilardoni, Trattato di diritto minerario, vol. I, Roma, 1928, 451 ss.; G. Pacinotti, Le miniere, le torbiere e le cave, in Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano, a cura di V.E. Orlando, vol. V, Milano, 1930, 671 ss., 701 ss., 747 ss.
[2] La disciplina delle cave e delle torbiere era mantenuta distinta da quella delle miniere e posta sotto il Titolo III del decreto; all’art. 51 si affermava: “Le cave e le torbiere sono lasciate alla libera disponibilità del proprietario del suolo”.
[3] È da osservare come gli olii minerali fossero già disciplinati dalla legge 19 marzo 1911, n. 250, che incoraggiava la ricerca del petrolio con premi statali; con R.D.L. 19 novembre 1921, n. 1605, relativo ai combustibili liquidi, si era, inoltre, già recata (anche) una grossolana e generica disciplina nazionale della ricerca degli idrocarburi (cfr. in proposito F. Corsi, Un venticinquennio di applicazione della legge mineraria, in Riv. trim. dir. pubbl., 1953, 1001 ss., 1007). L’art. 64 del R.D. del 1927 considerava, tuttavia, “abrogate tutte le disposizioni delle leggi e dei decreti fino ad ora vigenti riguardanti le materie contemplate dal presente decreto”.
[4] Anche in questo caso, il R.D. prevedeva che il possessore del fondo non potesse opporsi “alle operazioni occorrenti per la delimitazione della concessione, alla apposizione dei termini relativi ed ai lavori di coltivazione, salvo il diritto alle indennità spettanti per gli eventuali danni”.
[5] L’art. 17 del R.D. stabiliva che il decreto di conferimento della concessione contenesse: “a) la indicazione del concessionario e del suo domicilio che deve essere stabilito od eletto nella provincia in cui trovasi la miniera; b) la durata della concessione; c) la natura, la situazione, l’estensione della miniera e la sua delimitazione; d) l’indicazione del diritto proporzionale da pagarsi dal concessionario ai termini dell’art. 25; e) l’ammontare del premio delle indennità eventualmente dovuti al ricercatore ai sensi dell’art. 16; f) tutti gli altri obblighi e le condizioni cui si intenda subordinare la concessione; g) l’indicazione dell’eventuale partecipazione dello Stato ai profitti dell’azienda, da determinarsi dopo aver udito il Ministro per le finanze”; al decreto occorreva anche unire “la planimetria e il verbale di delimitazione della concessione”; esso sarebbe stato infine “registrato con la tassa fissa di L. 10”, “pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno” e “trascritto all’ufficio delle ipoteche”.
[6] A tal riguardo cfr. utilmente Cons. St., Sez. IV, sent. 24 febbraio 1953, in Riv. dir. min., 1954, 29 ss., con nota di L. Salvi, In tema di preferenza nella concessione di sfruttamento minerario al titolare del permesso di ricerca, ove si chiarisce che “indubbiamente il ricercatore deve essere anche, e prima di ogni cosa, titolare di un permesso di ricerche; ma occorre altresì che egli abbia effettivamente compiuto le ricerche” (31 s.). è appena il caso di precisare che la concessione poteva essere accordata anche a “società”: in questa evenienza, il rilascio della concessione era dall’art. 15 del decreto subordinato alla condizione che “tanto i rappresentanti quanto i dirigenti di essa” fossero “di gradimento del Ministro per l’economia nazionale”.
[7] Su questa disciplina F. Vassalli, Note critiche sul concetto di demanio minerario, in Riv. dir. comm., 1927, XXV-I, 493 ss., 494; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1952, 283; C. Vitta, Diritto amministrativo, vol. I, III ed. riv. agg., Torino, 1948, 265 ss.; più ampiamente A. Gilardoni, Trattato, cit., 612 ss. (la versione originaria del testo del R.D. del 1927 può essere letta ivi, alle pagg. 587-597); è appena il caso di precisare che il R.D. è stato espressamente modificato più volte, a partire dalla legge 7 novembre 1941, n. 1360; l’ultima modifica dovrebbe risalire al D.P.R. 18 aprile 1994, n. 382.
[8] “(…) il Governo non poteva rimanere incerto, e, ripudiando la concezione fondiaria, al pari dell’ibridismo proprio delle forme intermedie, informò il nuovo sistema legislativo al principio della demanialità”.
[9] Il mantenimento delle antiche leggi era tuttavia garantito dall’art. 431 c.c., ove risultava stabilito che “le miniere (…) sono regolate da leggi speciali”: cfr. in proposito D. Callegari, Gli articoli 444, 494 e 1561 del Codice Civile in rapporto alla legge mineraria, in Dir. beni pubbl., 1937, 637 ss., 638; ma v. anche G. Pacinotti, Le miniere, cit., 720.
[10] Cfr. A.M. Sandulli, Manuale, cit., 283.
[11] G. Zanobini, Corso, cit., 111; nel medesimo senso anche G. Abbate, Miniera (beni minerari), in Enc. dir., XXVI, Milano, 1970, 398 ss., 400, e già D. Callegari, Gli articoli 444, 494 e 1561, cit., 640; sul problema v. anche F.P. Pugliese, Proprietà e impresa: riflessioni sui procedimenti costitutivi dei beni minerari e del regime amministrativo dell’impresa, in Riv. trim. dir. pubbl., 919 ss., 974 ss.; R. Federici, Contributo allo studio dei beni minerari. Principi generali, vol. I, Padova, 1996, 19 ss.; v. anche Corte cost., sent. 27 gennaio 1958, n. 8, in Giur. cost., 1958, 59 ss., 64, ove si afferma essere “incontestabile che, nel sistema della legge mineraria nazionale, può parlarsi di miniera solo quando un giacimento coltivabile sia stato scoperto”.
[12] Anche in ragione dell’affermazione contenuta nella Relazione al R.D. (v. supra nt. 7), parte della dottrina del tempo riteneva che i beni minerari appartenessero al demanio dello Stato: in questo senso, tra gli altri, A. Gilardoni, Trattato, cit., 605 ss.; di contrario avviso, tuttavia, la dottrina maggioritaria: cfr. ad es. F. Vassalli, Note critiche, cit., 497, ma passim; A. Cherchi, Il nuovo regime, cit., 60 s.; G. Ingrosso, Il patrimonio dello Stato, in Arch. giur., 1929, 57 ss., 87, sub nt. 1; D. Callegari, Ipoteca mineraria, Padova, 1934, 261 ss.; Id., Gli articoli 444, 494 e 1561, cit., 639 ss.; in proposito v. anche G. Zanobini, Corso, cit., 111 s.; A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 37: “(…) il Ministro ha parlato di demanialità non tanto per affermare la proprietà pubblica dell’intero sottosuolo minerario, quanto per sottolineare che, con la nuova legge, il Governo ha inteso informare l’ordinamento minerario a principi pubblicistici”; G. Abbate, Miniera, cit., 405 s.
[13] Cfr. in proposito ancora A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 37 s., il quale tra l’altro osserva che l’art. 826 c.c., discorrendo di “miniere”, colloca implicitamente i giacimenti minerari tra il patrimonio indisponibile dello Stato solo in quanto siano scoperti.
[14] In questo senso, del resto, anche l’art. 14, comma 2, del R.D. del 1927.
[15] Cfr. R. Federici, Contributo, cit., 32, il quale, tuttavia, osserva che nel settore degli idrocarburi essa è implicita e non formalmente necessaria: “la dichiarazione di esistenza e coltivabilità non è implicita nella concessione di coltivazione ma è per forza di cose precedente”: cfr. infatti l’art. 9, comma 1, della legge 9 gennaio 1991, n. 9, ove si legge: “Al titolare del permesso, che, in seguito alla perforazione di uno o più pozzi, abbia rinvenuto idrocarburi liquidi o gassosi è accordata la concessione di coltivazione se la capacità produttiva dei pozzi e gli altri elementi di valutazione geo-mineraria disponibili giustificano tecnicamente ed economicamente lo sviluppo del giacimento scoperto”.
[16] Cfr. in proposito Barbero, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, I, Torino, 1962, 735; A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 26 ss.; successivamente all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana la questione del limite al diritto di proprietà derivante dalla ricerca mineraria è stata risolta positivamente dal giudice costituzionale: v. Corte cost., sent. 9 marzo 1967, n. 20, in Giur. cost., 1967, 139 ss.; sent. 23 novembre 1967, n. 119, ivi, 1967, 1571 ss.
[17] In questo senso ad es. G. Pacinotti, Le miniere, cit., 754 ss.
[18] Interessante l’annotazione di R. Alessi, Sulla qualificazione giuridica del permesso di ricerca mineraria, in Riv. dir. min., 1953, 65 ss., 66, il quale scrive: “il permesso di ricerca (…) non costituisce affatto una trovata del legislatore italiano del 1927. Noi troviamo infatti un analogo istituto nella legge mineraria sardo-piemontese del 1859 (che esigeva sempre il permesso di ricerca, anche per il proprietario del suolo, a differenza dalla precedente legge del 1840 che il permesso esigeva solo se il ricercatore non avesse ottenuto quello del proprietario del fondo) (…)”; più in generale, seppure con peculiarità non trascurabili, è da dire che questo schema logico ricorreva nelle leggi che si informavano al sistema c.d. industriale: v. ad es. la legge napoletana del 17 ottobre 1826, cit. da G. Pacinotti, Le miniere, cit., 716 s.
[19] Secondo quanto ammetteva la dottrina maggioritaria: cfr. G. Zanobini, Corso di diritto amministrativo, vol. I, V ed., Milano, 1948, 202 ss., ed ivi ulteriori ragguagli di dottrina (Ranelletti, Forti, Vignocchi).
[20] E. Casetta, Sulla natura giuridica del permesso di ricerca mineraria, in Riv. dir. min., 1950, 57 ss.
[21] Cfr. ad es. R. Alessi, Sulla qualificazione giuridica, cit., 68, che definisce il permesso di ricerca come concessione “appartenente alla categoria delle concessioni c.d. traslative”.
[22] V. ancora G. Zanobini, Corso, cit., vol. I, 201.
[23] E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, VIII ed. riv. agg., Milano, 2006, 319 s.
[24] A.M. Sandulli, Abilitazioni – Autorizzazioni – Licenze, in Rass. dir. pubbl., 1958, 1 ss., 10, il quale scrive: “Il campo delle licenze – nel quale ci troviamo – è strettamente affine a quello delle concessioni costitutive. Rispetto a queste le licenze si differenziano infatti unicamente perché consentono ai privati attività che, seppur sovraintese dall’Amministrazione, non attengono alla sfera di disposizione propria di questa”.
[25] In relazione alle altre Regioni ad autonomia speciale v. M. Palmerini, Norme costituzionali sulla energia nell’ordinamento regionale, Milano, 1961, 53 ss.; A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 52 ss.; G. Cataldi, La riserva della impresa mineraria da parte dello Stato e della Regione, Milano, 1966, 49 ss.; A. Troccoli, Miniera (amministrazione), in Enc. dir., vol. XXVI, Milano, 1970, 431 ss., 450 ss. Caso del tutto singolare quello della Valle d’Aosta, il cui Statuto speciale del 1948 non ha assegnato alla Regione la proprietà delle miniere, stabilendo, invece, che “le miniere esistenti nella Regione sono date in concessione gratuita alla Regione per novantanove anni” (art. 11); come osservato convincentemente da A. Barucchi, op. cit., 55 ss., 59, trattasi non di una “concessione” riconducibile alla categoria delle concessioni amministrative, ma di un “provvedimento produttivo di un trasferimento di poteri normativi e amministrativi dallo Stato alla Regione” (in senso parzialmente diverso tuttavia A. Troccoli, Miniera, cit., 453); sulla disciplina statutaria valdostana v. anche Corte cost., sent. 27 gennaio 1958, n. 8, cit. Circa le Regioni ad autonomia ordinaria, l’art. 119 Cost. ha stabilito, invece, che esse abbiano “un proprio demanio e patrimonio, secondo le modalità stabilite con legge della Repubblica” (in attuazione di detta previsione v., quindi, l’art. 11 della legge 16 maggio 1970, n. 281); questa disposizione è stata tuttavia modificata dalla legge cost. n. 18 ottobre 2001, n. 3, la quale ha previsto che “i Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato”.
[26] Sulla potestà legislativa delle altre Regioni ad autonomia speciale v. ancora gli scritti citati nella nt. precedente; per quanto concerne, invece, le Regioni ad autonomia ordinaria v. più oltre nel testo.
[27] Detto problema è, tuttavia, posto da A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 53, anche in riferimento alle altre Regioni ad autonomia speciale.
[28] A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 54.
[29] In proposito v. utilmente G. La Barbera, Lo Statuto della Regione Siciliana, Palermo, 1950, 142, il quale, nel citare il parere del Consiglio di Giustizia Amministrativa del 28 novembre 1948, n. 32, avente ad oggetto l’appartenenza di alcuni “macchinari le ricerche petrolifere di proprietà dello Stato”, sottolinea come nell’art. 33, comma 1, si parli di “beni esistenti nel territorio” e non di “beni che si trovano nel territorio” della Regione; cfr. anche M. Palmerini, Norme costituzionali, cit., 45, il quale osserva che la disposizione statutaria comunque non esclude che appartengano al patrimonio della Regione anche i beni futuri; in questo senso, da subito, Alta Corte Reg. Sic., sent. 18 marzo 1950, n. 4, in Foro it., 1950, 1465 ss.
[30] Ad una medesima conclusione giunge anche A. Troccoli, Miniera, cit., 450, nt. 74.
[31] Cfr. ad es. G. Falzone, I beni del “patrimonio indisponibile”, Milano, 1957, 58 s.; v. anche infra sub nt. 2.
[32] V. tuttavia Alta Corte Reg. Sic., sent. 10 dicembre 1951, n. 23, in Riv. dir. min., 1953, 41 ss. (con nota di G. Greco Agevolazioni fiscali per operazioni di credito minerario del Banco di Sicilia e costituzionalità del Decreto legislativo 11 maggio 1950 del Presidente della Regione Siciliana), con la quale si riconosce che la competenza legislativa sulle “miniere” ricomprenda in sé anche la valorizzazione delle stesse: la sentenza ha dichiarato, infatti, la legittimità costituzionale del decreto legislativo del Presidente della Regione Siciliana dell’11 maggio 1950 di proroga delle agevolazioni fiscali per le operazioni della Sezione di Credito Minerario del Banco di Sicilia, sul presupposto che ciò fosse manifestazione del potere legislativo della Regione in materia tributaria (art. 36 St.) ed anche in materia di “valorizzazioni di prodotti industriali e minerari” (art. 14 St.).
[33] Legge Reg. Sic. 20 marzo 1950, n. 30, sulla “Disciplina della ricerca e della coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi”; per un commento alla legge v. S. Orlando Cascio, Lo Statuto siciliano e la legge regionale sugli idrocarburi, in Riv. dir. min., 1954, 77 ss.).
[34] A. Piraino Leto, Le miniere nella legislazione della Regione Siciliana, in Riv. dir. min., 1950, 89 ss., 100.
[35] È da ricordare, tuttavia, che con legge regionale 1° ottobre 1956, n. 54, si sarebbe recata una generale disciplina della ricerca e della coltivazione delle sostanze minerarie nella Regione, in deroga al R.D. del 1927. L’art. 1 della legge avrebbe chiarito che “la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi (continuassero) ad essere disciplinate dalla legge regionale 20 marzo 1950, n. 30, integrata dalle disposizioni della presente legge in quanto compatibili”. Essa, inoltre, avrebbe recato pioneristicamente anche una disciplina della c.d. “indagine” mineraria (a tal proposito v. utilmente G. Dore-P. De Magistris, Esercizio della potestà legislativateria mineraria della Regione autonoma della Sardegna, in Riv. dir. min., 1966, 3 ss., 19 ss.). Su questa legge si è successivamente pronunciata la Corte costituzionale dichiarando, però, l’inammissibilità del ricorso proposto dal Presidente del Consiglio e dal Commissario dello Stato: cfr. Corte cost., sent. 9 marzo 1957, n. 38, in Giur. cost., 1957, 463 ss., 489.
[36] Meno noto il fatto che la Regione Siciliana fosse già intervenuta in materia con la legge 5 agosto 1949, n. 45, disciplinando, in modo assolutamente pionieristico, le attività di prospezione geologica, mineraria e geofisica; dette attività venivano dalla legge considerate in due fasi: la prima affidata alla P.A.; la seconda rimessa nelle mani dei privati, i quali avrebbero potuto beneficiare di appositi “contributi a carico del bilancio regionale” (art. 2). Tali contributi non avrebbe potuto eccedere “la misura del 20% dell’ammontare della spesa necessaria per il compimento delle ricerche, degli studi e degli esperimenti”; utili notizie al riguardo in A. Piraino Leto, Le miniere, cit., 103 ss., ed ivi indicazioni ulteriori relative ad altri atti normativi adottati nello stesso anno dalla Regione. La disciplina della “indagine mineraria” avrebbe poi interessato ogni sostanza mineraria a seguito dell’approvazione della legge reg. sic. 1° ottobre 1956, n. 54 (v. nt. precedente).
[37] Il Consiglio Regionale delle Miniere venne istituito con decreto Pres. Reg. Sic. 15 ottobre 1947, n. 92, successivamente ratificato con legge 6 dicembre 1948, n. 92; cfr. in proposito A. Piraino Leto, Le miniere, cit., 89 ss.; G. Abbate, Il decentramento del servizio minerario nell’ordinamento giuridico, in Riv. dir. min., 1956, 155 ss., 168.
[38] Per A. Piraino Leto, Le miniere, cit., 101: “questa innovazione esclude discrezionalità di apprezzamenti della idoneità tecnica ed economica, nella seconda fase, ed ha la sua genesi nelle particolari esigenze di quella impresa mineraria costosa, aleatoria, rischiosa”; cfr. del resto Alta Corte Reg. Sic., sent. 4 luglio 1950, n. 4, in Foro it., 1950, 1465 s., che, originata dal ricorso avverso la legge da parte del Commissario dello Stato, si legge: “il permesso di ricerca non si trasforma senz’altro in concessione, essendo necessario in ogni caso un atto amministrativo, previo accertamento delle condizioni previste dall’art. 6: adempimento degli obblighi imposti dalla legge e dal decreto che autorizzò la ricerca. E la concessone è soggetta a decadenza per cause determinate”.
[39] Al successivo art. 8 si chiariva che “la specie e la misura del canone di cui alla lettera d) dell’articolo precedente, quando non siano state determinate nel permesso di ricerca e nel relativo disciplinare, sono determinate nello stesso decreto di concessione, sentito l’Assessore per le Finanze. Nel caso in cui il canone debba essere corrisposto in natura, le percentuali del prodotto grezzo da corrispondere sono fissate in funzione della produzione netta attuale del giacimento. Esse percentuali sono fissate entro i limiti minimo e massimo del 4% e del 20%”.
[40] L’art. 18, lett. g), del R.D. del 1927 stabiliva che il decreto di concessione dovesse contenere, tra l’altro, “l’indicazione dell’eventuale partecipazione dello Stato ai profitti dell’azienda, da determinarsi dopo aver udito il Ministro per le finanze”; è appena il caso di osservare che, secondo quanto previsto dall’art. 16 della legge regionale, l’Assessore per l’Industria ed il Commercio avrebbe potuto inserire nel permesso di ricerca e nel decreto di concessione una apposita “clausola compromissoria”, in base alla quale “le controversie aventi per oggetto i casi di decadenza previsti dall’art. 10 siano decise da un collegio arbitrale ai sensi dell’art. 806 e seguenti del Codice di Procedura Civile”: su ciò v. ancora A. Piraino Leto, Le miniere¸cit., 102; S. Orlando Cascio, Lo Statuto siciliano, cit., 97; su ciò v. ancora Alta Corte Reg. Sic., sent. 4 luglio 1950, n. 4, cit., 1467: “l’autorizzazione del compromesso arbitrale, così specificato, non è in contrasto con l’ordinamento costituzionale della tutela dei diritti e degli interessi e non ha un oggetto che per norma della Carta costituzionale si possa considerare indisponibile. La clausola compromissoria è frequente nelle concessioni vincolate; la previsione di essa non esorbita certamente dalla potestà legislativa della assemblea regionale”.
[41] Come si è visto più dietro, in ordine alla durata della concessione, ad es., il R.D. stabiliva che essa venisse fissata nel decreto del Ministro per l’Industria ed il Commercio, sentito il parere del Consiglio Superiore delle miniere (art. 18); d’altra parte, però, è stato esattamente osservato come in ordine alle ipotesi di decadenza l’amministrazione siciliana possedesse poteri maggiormente discrezionali rispetto ai casi contemplati dal R.D. del 1927: in questo senso F. Corsi, Un venticinquennio, cit., 1048 s.
[42] V. a tal proposito V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale. L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti normative), II, 1, VI ed. agg., Padova, 1993, 130 s., e, più diffusamente, G. Silvestri, Legge cost. 26 febbraio 1948, n. 2 (Statuto Sicilia), in Commentario della Costituzione. Disposizioni transitorie e finali I-XVIII. Leggi costituzionali e di revisione costituzionale (1948-1993), a cura di A- Pizzorusso, Bologna-Roma, 1995, 315 ss., 331 ss.
[43] V. ad es. C. Palazzoli, Les Régions italiennes. Contribution à l’étude de la décentralisation politique, Paris, 1966, 77 ss.
[44] In relazione al problema che qui interessa, con la sentenza 4 luglio 1950, n. 4, cit., l’Alta Corte per la Regione Siciliana ha affermato che i principi generali dell’ordinamento giuridico potessero costituire un limite alla competenza legislativa esclusiva della Regione solo in quanto principi costituzionali (cfr. ancora S. Orlando Cascio, Lo Statuto siciliano, cit., 80 s.). Questo orientamento giurisprudenziale non ha, però, trovato successiva conferma (cfr. Alta Corte Reg. Sic., sent. 21 ottobre 1950, n. 841, cit. in L. Giovenco, Principi dell’ordinamento giuridico dello Stato e potestà legislativa delle Regioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 1956, 456 ss., 463, nt. 10); su un piano più generale, autorevole dottrina ha sostenuto che, pur nel silenzio dello Statuto ed anche in ragione del riferimento testuale ai “principi dell’ordinamento giuridico” effettuato dagli altri Statuti delle Regioni ad autonomia speciale, il limite dei principi dovesse imporsi finanche alla Regione Siciliana: in questo senso ad es. P. Virga, La Regione, Milano, 1949, 73; A. Montel, Incostituzionalità della legge siciliana sulla ricerca e coltivazione degli idrocarburi, in Foro it., 1950, 17 ss., 20; L. Giovenco, Principi, cit., 462 s.; ritiene che siffatti principi siano idonei a limitare la potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana solo in quanto “compresi nella Costituzione” T. Martines, Questioni e dibattiti sulla legislazione regionale siciliana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1954, 183 ss., 225 ss., 227; discorre di principi da ritrovarsi entro il “sistema costituzionale” S. De Fina, Autonomia legislativa della Regione Siciliana, Milano, 1957, 207 ss.; v. anche V. Crisafulli, Legislazione siciliana concorrente: limite finalistico e limite dei principi (in tema di recesso «ad nutum»), in Giur. cost., 1958, 366 ss., 374, il quale ricollega il rispetto dei principi generali nell’esercizio di qualsiasi potestà legislativa regionale – e dunque anche di quella esclusiva – alla “unità dell’ordinamento complessivo della Repubblica”.
[45] Corte cost., sent. 3 aprile 1968, n. 21, in Giur. cost., 1968, 396 ss., con nota di L. Paladin, Territorio regionale e piattaforma continentale, ivi, 402 ss.; v. anche G. Gaja, Sulla rilevanza del diritto internazionale circa la delimitazione delle potestà legislative statale e regionale, in Riv. dir. intern., 1969, 322 ss.; R. Barsotti, Piattaforma litorale e competenza delle Regioni davanti alla Corte costituzionale, in Riv. dir. intern. priv. proc., 1969, 443 ss.
[46] P.to 5 del Considerato in diritto.
[47] P.to 5 del Considerato in diritto; questa conclusione sconta ovviamente l’adesione a quella concezione dottrinale che, da tempo, tende ad interpretare i contenuti delle materie attraverso il ricorso al criterio “storico-normativo”: cfr. A. D’Atena, L’autonomia legislativa delle Regioni, Roma, 1974, 117 s.; S. Mangiameli, La proprietà privata nella Costituzione italiana. Profili generali, Milano, 1986, 72 ss.; Id., Le materie di competenza regionale, Milano, 1992, 103 ss.; la tesi è però respinta da L. Paladin, Territorio regionale, cit., 410, e da R. Barsotti, Piattaforma, cit., 449. Anche a voler aderire alla prospettiva coltivata dalla Corte, deve, tuttavia, osservarsi come, a seguito della riscrittura del Titolo V della Costituzione, la questione potrebbe oggi porsi (e risolversi) in modo del tutto differente (ma su questo v. più avanti).
[48] Cfr., del resto, G. Guglielmi, Estensione delle norme sulla ricerca sottomarina degli idrocarburi e di altre sostanze minerali, in Atti del terzo convegno di studi di diritto minerario, Roma, 1969, 128 ss., 131, il quale ricorda come fino all’entrata in vigore della legge n. 613 del 1967 la prassi è andata nel senso di estendere alla ricerca e alla coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare la legge n. 6 del 1957 (di cui si dirà nel succ. §). A partire dal 1953, ciò, tuttavia, non ha riguardato il Mare Adriatico, che, considerato dalla tabella A allegata alla legge 10 febbraio 1953, n. 136, è stato dalla legge definito come “territorio” riservato alle attività dell’ENI (su ciò v. più avanti sub nt. 70).
[49] Con specifico riferimento al concetto geografico di “territorio” assunto entro il diritto costituzionale italiano v. C. Cereti, Costituzione e territorio, in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, vol. I, Padova, 1957, 399 ss.; v. anche S. Mangiameli, La proprietà privata, cit., 72.
[50] In questo senso chiaramente H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1954), trad. it., VI ed., Milano, 2000, 211 s.
[51] V. ora, del resto, Corte cost., sent. 15 aprile 2008, n. 102, in Giur. cost., 2008, 1194 ss., 1267 ss., p.to 8.2.6 del Considerato in diritto.
[52] Ma una precisazione di questo tipo non ricorre nell’art. 14 St. Sicilia.; in relazione alla competenza legislativa sulla pesca, come disciplinata dall’art. 3 St. Sardegna, cfr. anche Corte cost., sent. 21 gennaio 1957, n. 23, in Giur. cost., 1957, 364 ss.
[53] Esempi ulteriori in A. Andreani, Note in tema di competenza delle Regioni sul mare territoriale e sulla piattaforma continentale, in Rass. dir. pubbl., 1969, 422 ss., 437.
[54] La questione concerne, ad esempio, le funzioni che in materia di “urbanistica” il Comune può esercitare. In proposito, il Consiglio di Stato ha chiarito che “il potere urbanistico del comune non può ritenersi limitato alla sola terraferma, ma si estende anche al mare territoriale prospiciente quest’ultima, ogniqualvolta sia realizzata un’opera che per la distanza dalla spiaggia sia idonea a causare un’apprezzabile alterazione dello stato dei luoghi in cui risiede la popolazione comunale” (Cons. St., Sez. VI, sent. 21 settembre 2006, n. 5547, in Dir. trasp., 2007, 817 ss, con nota di G. Reale, La disciplina urbanistica nell’ambito del demanio marittimo e del mare territoriale; nel medesimo senso già TAR Toscana, sent. 20 settembre 1984, n. 1101, in T.A.R., 1984, 3401 ss.); in questa prospettiva, nel 1999 il Comune di Pineto (TE) contestò alla società ENI l’omesso pagamento dell’imposta ICI per gli anni 1993-1998, per un importo complessivo di lire 32.819.520.870, in relazione alle piattaforme petrolifere per l’estrazione di idrocarburi collocate nelle acque territoriali del Mare Adriatico prospicienti il territorio comunale. Avverso l’avviso di accertamento (22 dicembre 1999, n. 19497) l’ENI propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Teramo, lamentando la carenza di potere impositivo del Comune e la mancanza dei presupposti oggettivi per l’applicazione dell’imposta. Nel maggio del 2001, la Commissione accolse il ricorso e la decisione venne poi confermata dalla Commissione tributaria regionale con sent. 10 marzo 2003, n. 7. Nel 2005, la Corte di Cassazione ha tuttavia riconosciuto il potere impositivo del Comune anche sulle piattaforme petrolifere, affermando che “sull’intero territorio dello Stato, ivi compreso il mare territoriale, convivono e si esercitano i poteri dello Stato contestualmente ai poteri dell’ente regione e degli enti locali” e che “non è configurabile, quindi, che su una porzione «del territorio inteso in senso lato su cui si esercita la sovranità dello Stato» non convivano i poteri delle autorità regionali e locali” (Cass., Sez. V, 27 giugno 2005, n. 13794, in Dir. trasp., 2006, 547 ss., con nota di M. Carretta, Potestà amministrativa concorrente dello Stato e degli enti locali sul mare territoriale e piattaforme marine per l’estrazione di idrocarburi), ed ha rinviato, per la decisione su altri motivi, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale. Nel 2011, a seguito alla decisione adottata dalla Commissione tributaria, con cui, muovendosi dalla non accatastabilità delle piattaforme petrolifere, si è concluso per la carenza del presupposto impositivo dell’ente, il Comune di Pineto ha proposto nuovamente ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione: sulla questione, anche in riferimento ad altri analoghi contenziosi in corso, v. utilmente S. Sansonetti, Ici, i comuni costieri contro l’Eni, in www.italiaoggi.it (10 aprile 2012).
[55] Contra A. Montel, Incostituzionalità della legge, cit., 18, che qualifica le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi come di “preminente interesse nazionale”.
[56] Alta Corte Reg. Sic., sent. 4 luglio 1950, n. 4, cit., 1466.
[57] L. Paladin, Territorio regionale, cit., 408.
[58] Sull’impossibilità di considerare l’interesse nazionale come limite sostanziale alla potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana v. A. Barucchi, L’attività, cit., 76, il quale osserva come se così non fosse non si giustificherebbe le precisazioni ricorrenti nell’art. 14: “lavori pubblici, eccettuate le grandi opere di interesse prevalentemente nazionale” e “acque pubbliche, in quanto non siano oggetto di opere pubbliche d’interesse nazionale”; più in generale, sulla giurisprudenza costituzionale incline a respingere la concezione puramente negativa del limite in parola, v. per tutti L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, 327.
[59] Cfr. A. Ruggeri, L’autonomia legislativa della Regione siciliana, dal modello statutario alle prospettive di riforma, in Le Regioni, 1997, 535, 551, per il quale il limite delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali – che pure si imponeva alla potestà legislativa esclusiva della Regione Siciliana (in quanto formula equivalente a quella delle “riforme agrarie e industriali” ex art. 14 St.: cfr. per tutti G. Silvestri, Legge cost., cit., 332) – costituisce assieme a quello dei “principi” (fondamentali) “la proiezione (…) del limite naturale (o sostanziale) degli interessi”: “forma”, cioè, “naturalmente più adeguata ad esprimere e salvaguardare gli interessi nazionali”; ma un cenno in tal senso già in C. Mortati, L’interesse nazionale come limite della legislazione regionale esclusiva, in Studi in onore di Emilio Crosa, II, Milano, 1960, 1277 ss., 1280 e 1294; la circostanza che la previsione negli Statuti o in Costituzione dei limiti o dei principi fondamentali possa essere originata da ragioni di tutela dell’interesse nazionale è, però, problema distinto da quello dell’interesse nazionale come limite; tanto è vero che il limite dell’interesse nazionale si impone(va) anche alla legislazione ripartita, come ricorda lo stesso C. Mortati, op. cit., 1293, che, tuttavia, aggiunge: “È difficilmente ipotizzabile che un pregiudizio agli interessi nazionali (…) possa provenire da leggi che si mantengano nei margini fissati dai principî medesimi”.
[60] C. Mortati, L’interesse nazionale, cit., 1292, il quale, se ben inteso, lungi dal lasciar coincidere l’interesse con la sfera territoriale di validità della legge, considerava il problema dal punto di vista della inopportunità (storicamente contingente e, pertanto, del tutto eventuale) dell’esercizio della funzione legislativa regionale, fermo restando il rispetto della competenza attribuita; sull’interesse nazionale quale limite alla potestà legislativa della Regione Siciliana v. anche il cenno dedicatovi da V. Crisafulli, Lezioni, cit., che lo deduce dal principio fondamentale dell’unità della Repubblica ex art. 5 Cost.
[61] Cfr. R. Barsotti, Piattaforma, cit., 449; è appena il caso di aggiungere che la distinzione tra “minerali di interesse nazionale” e “minerali di interesse locale” ricorre nel D.P.R. 28 giugno 1955, n. 620, con cui si è modificato l’art. 5 del R.D. del 1927 più volte citato: “Il permesso è accordato a chi ne faccia domanda ed abbia, a giudizio insindacabile dell'Amministrazione, la capacità tecnica ed economica necessaria: dal Ministro per l’industria e per il commercio, quando si tratti di minerali d’interesse nazionale; dall’ingegnere capo del Distretto minerario per i minerali di interesse locale”. Con questo si sarebbe, però, inteso mantenere integra la competenza delle Regioni ad autonomia speciale, come si legge anche all’art. 15 del suddetto D.P.R.: v. in proposito G. Abbate, Il decentramento, cit., 160 s.; ma per la Regione Trentino-Alto Adige v. l’art. 29 del D.P.R. 30 giugno 1951, n. 574 (poi abrogato nel 1978), ove si disponeva: “Per i giacimenti minerari che vengono dichiarati di interesse nazionale da una legge generale dello Stato, l’attività amministrativa è esercitata dalla Regione alle condizioni e nei limiti stabiliti dalla legge medesima”; in relazione a ciò v. comunque Corte cost., sent. 26 gennaio 1957, n. 15, in Giur. cost., 1957, 305 ss., con osservazione critica di C. Mortati.
[62] La Conferenza di Ginevra varò – com’è noto – quattro diverse Convenzioni: sul mare territoriale e la zona contigua, sull’alto mare, sulla pesca e conservazione delle risorse biologiche dell’alto mare, sulla piattaforma continentale.
[63] L. Paladin, Territorio regionale, cit., 405; è appena il caso di osservare, tuttavia, come, nonostante la mancata ratifica dell’atto internazionale, la legge 21 luglio 1967, n. 613, in relazione alla ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi nel mare territoriale e nella piattaforma continentale, accoglieva la nozione di “piattaforma continentale” recata dalla Convenzione di Ginevra.
[64] R. Barsotti, Piattaforma, cit., 450 s.
[65] Cfr. G. Gaja, Sulla rilevanza, cit., 323 s.: “L’Italia non ha (…) alcun obbligo internazionale di regolare lo sfruttamento dei giacimenti sottomarini adiacenti alla costa; il regolarlo costituisce attività di per sé indifferente, o meramente lecita, secondo l’ordinamento internazionale, così come lo è la disciplina dell’utilizzazione delle miniere terrestri”.
[66] Corte cost., sent. 3 aprile 1968, n. 21, cit., 412.
[67] Con la sent. n. 23 del 1957 (v. infra nt. 50), la Corte costituzionale aveva riconosciuto alla Regione Sardegna una competenza in materia di pesca marittima; successivamente, il D.P.R. 24 novembre1965, n. 1627, ha recato norme di attuazione dello Statuto speciale per la Sardegna in materia di pesca e saline sul demanio marittimo. In ragione di questo precedente, la difesa della Regione Sardegna ha, quindi, osservato che nulla ostasse a che analogo criterio fosse esteso alle attività di sfruttamento minerario del fondo marino (p. 404). Ma la Corte costituzionale ha sostenuto che “quello dell’esistenza di un mare territoriale regionale altro non è se non un problema di esistenza, fra le competenze regionali, di singole materie aventi un oggetto che implica l’utilizzazione di quel mare: e non è perciò invocabile a favore dell’accoglimento dei ricorsi la sentenza di questa Corte del 21 gennaio 1957 n. 23. Questa riconobbe alla Regione sarda una competenza in materia di pesca marittima, ma non giudicò che la Regione stessa ha un suo mare territoriale o che può esercitare poteri su quel mare, sia pure limitatamente alla pesca” (p. 413; contra, invece, nel senso dell’esistenza di un mare territoriale di pertinenza regionale, P. Virga, La Regione, cit., 105; L. Paladin, La potestà legislativa regionale, Padova, 1958, 6; Id., Il territorio degli enti autonomi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1961, 607 ss., 662). Nella stessa pronuncia si legge ancora: “Non si potrebbe dividere il fondo e il sottofondo marino fra zona territoriale, zona contigua e zona d’alto mare, per riconoscere alle Regioni una competenza unicamente riguardo alle attività che possono esercitarsi sulla porzione di fondo e di sottofondo sottostante al mare territoriale, perché la corrispondente differenziazione del mare si rifà ad una varia natura e ad una diversa intensità dei poteri dello Stato, che attengono alla difesa, alla polizia della navigazione, alla vigilanza doganale, e via enumerando”; v. in proposito, però, la critica di R. Barsotti, Piattaforma, cit., 451, il quale sottolinea come il riconoscimento della potestà legislativa sugli idrocarburi non compromette quello delle funzioni di polizia e di vigilanza sulla sicurezza della navigazione che compete comunque allo Stato: “non si può negare” – scrive l’A. – “che le Regioni non sarebbero in grado di reprimere eventuali abusi da parte di Stati terzi, ma non risulta che esse abbiano preteso di poterlo fare”.
[68] Cfr. l’art. 3 della Convenzione di Montego Bay del 1982, cui l’Italia ha dato esecuzione con legge 2 dicembre 1994, n. 689: “Ogni Stato ha il diritto di fissare la larghezza del proprio mare territoriale fino a un limite massimo di 12 miglia marine, misurate a partire dalle linee di base determinate conformemente alla presente Convenzione”; ma v. anche art. 2 cod. nav.
[69] Cfr. P. Bernardini, Idrocarburi I) Diritto internazionale, in Enc. giur. Treccani, Vol. XVII, s.d., 2; l’art. 2, § 1, Conv. Ginevra cit. (ed ora anche l’art. 77 della Convenzione di Montego Bay cit.), qualifica, invero, tali diritti come “diritti di sovranità”, ma impropriamente, atteso che in relazione alla piattaforma continentale – e diversamente da quanto accade con il mare territoriale – non vi è spazio per alcun esercizio di “sovranità” dello Stato costiero; la Corte, però, nella sentenza n. 21 del 1968 sembra non mantenere adeguatamente distinte le due situazioni: cfr. in proposito A. Andreani, Note in tema di competenza, cit., 423 s.
[70] Così ora l’art. 76 della Convenzione di Montego Bay del 1982; a seguito di ciò l’art. 4 della legge di esecuzione 2 dicembre 1994, n. 689, ha provveduto alla sostituzione della definizione di “piattaforma continentale” recata dall’art. 1, comma 1, della legge 21 luglio 1967, n. 613. Sul mare territoriale e sulla piattaforma continentale v. per tutti B. Conforti, Mare territoriale, in Enc. dir., vol. XXV, Milano, 1975, 651 ss.; P. Biscaretti di Ruffía, Territorio dello Stato, ivi, vol. XLIV, Milano, 1992, 333 ss., 341; A. Del Vecchio, Mare (diritto internazionale del), ivi, Aggiornamenti, vol. II, Milano, 1998, 509 ss.; v. utilmente anche G.P. Francalanci-P. Presciuttini, Storia dei trattati e dei negoziati per la delimitazione della piattaforma continentale e del mare territoriale, Genova, 2000; U. Leanza-L. Sico, La sovranità territoriale, II, Il mare, Torino, 2001; R. Macnab, The Case for Transparency in the Delimitation of the Outer Continental Schelf in Accordance with UNCLOS Article 76, in Ocean Dev. Intern. Law, 1, 2004, 1 ss.; cfr., inoltre, Il mare (suppl. al BUIG), a cura del Dipartimento per l’Energia – Direzione Generale per le Risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello Sviluppo economico (28 febbraio 2013), in http://unmig.sviluppoeconomico.gov.it.
[71] Nel 1953 veniva istituito l’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), avente personalità giuridica di diritto pubblico e incaricato di “promuovere ed attuare iniziative di interesse nazionale nel campo degli idrocarburi e dei vapori naturali” (art. 1) “a mezzo di società controllate o collegate” (art. 3). La legge istitutiva precisava che le attività minerarie svolte dall’Ente dovessero soggiacere al R.D. del 1927 e che alla costruzione e all’esercizio delle condotte di trasporto di idrocarburi si applicassero “le leggi relative a tale materia”. In virtù di ciò, anche dopo l’adozione della n. 6 del 1957, si ritenne che le attività esercitate dall’ENI continuassero ad essere disciplinate dalla legislazione mineraria previgente (ogni dubbio in proposito sarebbe stato comunque fugato dalla legge 8 marzo 1958, n. 231, che dichiarava: “Sono (…) regolate esclusivamente dal R.D. legge 29 luglio 1927, n. 1443 le attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi (…) previste dall’art. 28 della legge 10 febbraio 1953, n. 136”: cfr. a tal proposito A. Montel, La legislazione sulla indagine, ricerca e coltivazione degli idrocarburi, in Riv. dir. min., 1960, 24 ss., 27 s.; sulla natura giuridica dell’ENI v., invece, S. Spadari, Aspetti e problemi fondamentali per l’interpretazione della legge sull’Ente Nazionale Idrocarburi, ivi, 1959, 3 ss.), sebbene la successiva legge 21 luglio 1967, n. 613 avrebbe trovato applicazione anche all’ENI (cfr. G. Guglielmi, Estensione, cit., 131). È appena il caso di ricordare come, con legge 11 gennaio 1963, la Regione Siciliana disciplinava la facoltà di ricerca e coltivazione diretta degli idrocarburi liquidi e gassosi, istituendo a tal proposito l’Ente minerario siciliano (EMS), avente anch’esso, al pari dell’ENI, personalità giuridica di diritto pubblico e operante a mezzo di “società per azioni” alle quali avrebbe dovuto conferire “i permessi e le concessioni conseguiti a norma della presente legge” (art. 5); la legge precisava che “nelle predette società (dovesse) essere riservata all’Ente una quota di capitale non inferiore al 51%” (v. su ciò G. Abbate, L’intervento dei pubblici poteri nell’industria estrattiva e la politica mineraria regionale fino alla creazione dell’ente minerario (E.M.S.), in Riv. dir. min., 1964, 3 ss., 15 ss.).
[72] Cfr. su ciò – almeno in parte – A. Barucchi, L’attività mineraria, cit., 126 s.; D. Sartirana, Rilancio delle ricerche di petrolio in Italia, in Aa. Vv., Disciplina giuridica degli idrocarburi, Milano, 1965, 237 ss.
[73] V. rispettivamente artt. 57 ss. e 78 l. 21 luglio 1967, n. 613; cfr. in proposito P. Gonnelli, La disciplina degli idrocarburi, in G. G. Gentile-P. Gonnelli, Manuale di diritto dell’energia, Milano, 1994, 197 ss., 199 s., il quale osserva come a seguito di ciò la materia ha finito per informarsi ad un regime giuridico molteplice.
[74] Ma con decreto ministeriale si sarebbe potuto anche stabilire che il concessionario corrispondesse, per periodi determinati, non il prodotto in natura, ma “il valore di esso calcolato a bocca di pozzo e determinato con le modalità di cui al disciplinare tipo” (art. 66).
[75] A ciò sarebbero da aggiungere anche alcune leggi con le quali si recava, almeno in parte, una disciplina speciale delle attività di ricerca e coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi: cfr. ad es. la legge 24 luglio 1962 n. 1072 (relativa all’Appennino tosco-emiliano) e la legge 14 agosto 1960, n. 825 (relativa all’area di sviluppo industriale “Valle del Basento”.
[76] Art. 14.
[77] Art. 9, comma 7.
[78] Per la prima volta, infatti, si stabiliva che la prospezione, la ricerca e la coltivazione degli idrocarburi liquidi e gassosi dovesse essere assoggettata a valutazione di impatto ambientale (VIA) e “a ripristino territoriale nei limiti e con le procedure previsti dalla normativa vigente” (art. 2, comma 3). La “normativa vigente” – cui la legge faceva riferimento – era quella recata dalla legge istitutiva del Ministero dell’ambiente (l. 8 luglio 1986, n. 349), che all’art. 6 dettava una disciplina transitoria della VIA, in attesa che si desse attuazione alla Direttiva 85/337/CEE del 27 giugno 1985: cfr. sul punto E. Mele, Art. 2, in Le nuove leggi civili commentate, a cura di G. Cian-A. Maffei Alberti-P. Schlesinger, Padova, 1993, 282 ss.; la legge, inoltre, disponeva che la domanda di permesso di ricerca fosse “corredata da opportuno studio ingegneristico circa la sicurezza ambientale della prospezione con riguardo a possibili incidenti con effetti dannosi sull’ecosistema marino e le misure che il richiedente intende adottare per evitare tali rischi” (art. 3, comma 4), faceva divieto di esercitare quelle attività nelle acque del Golfo di Napoli, del Golfo di Salerno e delle Isole Egadi, “fatti salvi i permessi, le autorizzazioni e le concessioni in atto” (art. 4), sospendeva i permessi di ricerca nelle zone dichiarate parco nazionale o riserva marina (art. 6, comma 13) e contemplava la possibilità che il permesso di ricerca venisse revocato, “anche su istanza di pubbliche amministrazioni o di associazioni di cittadini”, per “gravi motivi attinenti al pregiudizio di situazioni di particolare valore ambientale o archeologico-monumentale, anche su istanza pubblica” (art. 6, comma 11): per un commento agli artt. cit. v. M. Nicolazzi, in Le nuove leggi civili, cit., risp. 292 ss., 295 ss. e 300 ss., il quale, ma in modo niente affatto convincente, in relazione a quanto previsto dall’art. 6, comma 13, ritiene potersi applicare una circolare del Ministero della marina mercantile del 4 gennaio 1990, con cui si faceva divieto di svolgere attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle aree c.d. protette e – limitatamente a quelle di coltivazione – nelle aree c.d. sensibili (pp. 296 e 307) (su ciò v comunque anche infra sub par. 5).
[79] Per un quadro di sintesi sul punto v. per P. Gonnelli, La disciplina, cit., 201 ss.
[80] Per la verità, in relazione alla concessione di coltivazione, l’art. 9 della legge nulla disponeva circa l’autorità competente al rilascio del titolo. Anche a seguito della pronuncia della Corte costituzionale (v. nt. succ.), l’art. 13 del D. Lgs. 25 novembre 1996, n. 625, ha aggiunto un ulteriore comma all’articolo, disponendo che “ove ricada nei territori di rispettiva competenza, la concessione di coltivazione è accordata dal Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, d’intesa con le regioni a statuto speciale o le province autonome di Trento e Bolzano interessate”.
[81] Corte cost., sent. 27 dicembre 1991, n. 482, in Giur. cost., 1991, 3883 ss., 3888, p.to 1 del Ritenuto in fatto; a commento della pronuncia v. A. D’Atena, Sulle pretese differenze tra intese deboli e pareri, nei rapporti tra Stato e Regioni, ivi, 3908 s.; L. Mezzetti, Esigenze unitarie nel settore dell’energia: condizioni di equilibrio e proporzionalità dell’intervento del legislatore statale, in Le Regioni, 1992, 1409 ss.; A. Bianco, Assonanze discorsive tra giudizio costituzionale di legittimità in tema di tutela dell’interesse nazionale e concezione dell’intesa Stato-autonomie speciali come accordo su basi non paritarie, ivi, 1437 ss.; R. Bin, «Coordinamento tecnico» e poteri regolamentari del Governo: spunti per un’impostazione ‘posteuclidea’ della difesa giudiziale delle Regioni, ivi, 1449 ss.
[82] P.to 4 del Considerato in diritto.
[83] V. infra par. 3 lett. b)
[84] L’art. 3 dello Statuto della Regione Valle d’Aosta stabilisce che “la Regione ha potestà di emanare norme legislative di integrazione e di attuazione delle leggi della Repubblica, entro i limiti indicati nell’articolo precedente, per adattarle alle condizioni generali, nelle seguenti materie: (…) e) disciplina della utilizzazione delle miniere”; l’art. 8 dello Statuto del Trentino-Alto Adige prevede che “le Province hanno la potestà di emanare norme legislative, entro i limiti indicati dall’art. 4, nelle seguenti materie: (…) 14) miniere, comprese le acque minerali e termali, cave e torbiere”; v. anche infra nt. 25.
[85] Su ciò v. infra, sub nt. 89.
[86] L’art. 29, comma 2, lett. l del d. lgs. 31 marzo 1998, n. 112 è stato, invero, modificato dall’art. 3 del d. lsg. 29 ottobre 1999, n. 443 nel modo che segue: (sono conservate, inoltre, allo Stato le funzioni amministrative concernenti: (…) l) la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, ivi comprese le funzioni di polizia mineraria in mare; le funzioni amministrative relative a prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi in terraferma, ivi comprese quelle di polizia mineraria, sono svolte dallo Stato d’intesa con la regione interessata secondo modalità procedimentali da emanare entro sei mesi dalla entrata in vigore del presente decreto legislativo”.
[87] Si prescinde, almeno per il momento, da quanto disposto dall’art. 10 del decreto, ove si dice che alle Regioni a Statuto speciale e alle Province autonome siano trasferiti, se non già attribuite, le funzioni e i compiti conferiti dallo stesso decreto alle Regioni a Statuto ordinario. A tal riguardo v. G. Pitruzzella, Commento all’art. 10, in Lo Stato autonomista. Funzioni statali, regionali e locali nel decreto legislativo n. 112 del 1998 di attuazione della legge Bassanini n. 59 del 1997, a cura di G. Falcon, Bologna, 1998, 59 ss., il quale qualifica tale previsione come “norma di garanzia dei meccanismi di attuazione statutaria” e come “norma sollecitatoria del lavoro delle Commissioni paritetiche”, chiamate a “provvedere e realizzare rapidamente i trasferimenti di funzioni e compiti che il decreto legislativo conferisce alle Regioni ordinarie, per evitare che quelle speciali paradossalmente si trovino dotate di uno stock di competenze minore rispetto alle ordinarie” (p. 59).
[88] Sul punto v. anche E. Ferrari, Art. 28, in Lo Stato autonomista, cit., 127 ss., 129.
[89] Corte cost., sent. 1° ottobre 2003, n. 303, in Giur. cost., 2003, 2675 ss., sulla quale v. almeno A. D’Atena, L’allocazione delle funzioni amministrative in una sentenza ortopedica della Corte costituzionale, ivi, 2776 ss.; A. Anzon, Flessibilità dell’ordine delle competenze legislative e collaborazione tra Stato e Regioni, ivi, 2782 ss.; A. Moscarini, Sussidiarietà e Supremacy Clause sono davvero perfettamente equivalenti?, ivi, 2791 ss.; A. Gentilini, Dalla sussidiarietà amministrativa alla sussidiarietà legislativa, a cavallo del principio di legalità, ivi, 2805 ss.
[90] L’art. 30, dopo aver esteso alle “concessioni di coltivazione di gas diversi dagli idrocarburi” la disciplina dell’art. 20 della L.R. 27 aprile 1999, n. 10, relativa alla determinazione dei canoni superficiari dovuti per i permessi di ricerca e le concessioni di coltivazione e alle aliquote di produzione dovute per la coltivazione, stabilisce che “per ciascuna concessione di coltivazione, il rappresentante comunica mensilmente all’URIG i quantitativi degli idrocarburi prodotti e di quelli avviati al consumo per ciascun titolare” ed aggiunge che “il rappresentante è responsabile della corretta misurazione delle quantità prodotte ed avviate a consumo, ferma restando la facoltà dell’URIG di disporre accertamento sulle produzioni avviate”. È appena il caso di ricordare che l’aliquota sulla produzione è ora pari al 10 per cento della quantità di idrocarburi liquidi o gassosi estratti in terraferma (v. art. 12, L.R. 12 maggio 2010, n. 11); versata annualmente alla Regione, essa è corrisposta per un terzo alla Regione e per due terzi ai Comuni “proporzionalmente al numero dei pozzi della concessione ricadenti nel territorio” con l’obbligo di destinare dette “allo sviluppo dell’occupazione e delle attività economiche, all’incremento industriale e ad interventi di miglioramento ambientale delle aree dove si svolgono le ricerche e le coltivazioni”
[91] L’art. 20 della legge 27 aprile 1999 aveva, invero, stabilito che “nelle more dell’approvazione di una nuova legge organica in materia, in attuazione della direttiva CE/94/22 del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 maggio 1994, i titoli minerari di cui alla legge regionale 20 marzo 1950, n. 30, e successive modifiche ed integrazioni, relativi alla ricerca e coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi, sono rilasciati dall’amministrazione regionale in maniera non discriminatoria e tale da non determinare situazioni di monopolio. Sono abrogate le disposizioni previste dalla legislazione vigente che istituiscono regimi preferenziali a favore di particolari soggetti”.
[92] Un sicuro obbligo in tal senso non potrebbe comunque trarsi (neppure) dall’art. 9 dir., ove si prescrive che ciascun Stato membro proceda alla pubblicazione annuale di una relazione contenente “informazioni sulle aree geografiche aperte alla prospezione, ricerca e coltivazione”. Nulla impedisce, infatti, che la questione sia risolta diversamente, gravando sul Governo nazionale unicamente l’obbligo di redigere la relazione annuale e di comunicarla alla Commissione.
[93] Ciò dipende, ovviamente, dalla lettura che del limite delle “norme fondamentali delle riforme economico-sociali” si dà, posto che una sua ricostruzione in termini di limite meramente esterno all’esercizio della competenza regionale porrebbe la questione in modo completamente differente rispetto a quella che considerasse il limite in discorso come parte della disciplina della materia, analogamente a quanto accade con la potestà legislativa concorrente. Ritengono, tra gli altri, che dette “norme fondamentali” siano assimilabili ai “principi fondamentali” L. Paladin, La potestà legislativa regionale, Padova, 1958, 154, e A. D’Atena, Legge regionale (e provinciale), in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, 969 ss., 990, il quale non considera dirimente la circostanza che negli Statuti delle Regioni ad autonomia speciale il limite dei principi fondamentali sia disposto (unicamente) in relazione alla potestà legislativa concorrente; per questa prospettiva v. anche Corte cost., sent. 22 dicembre 1969, n. 160, in Giur. cost., 1969, 2397 ss., 2401, cui adde Corte cost., sent. 8 maggio 1995, n. 153, in Giur. cost., 1995, 1278 ss., 1285 (ed ivi ragguagli sulla giurisprudenza con cui la Corte ha fornito una nozione sostanziale del limite in discorso); è da osservare, tuttavia, che la giurisprudenza costituzionale risulta, in proposito, oscillante, propendendo talvolta per una assimilazione delle norme fondamentali (finanche) alle norme di dettaglio, talaltra per una assimilazione delle stesse agli “standard minimi” di tutela; per la giurisprudenza che si è prodotta al riguardo cfr. comunque M. Siclari, Brevi note sulla recente giurisprudenza costituzionale in tema di norme fondamentali delle riforme economico-sociali, in Giur. it., 1987, IV, 434 ss.; B. Caravita, La giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di riforme economico-sociali, in Foro it., 1986, I, 2690 ss.; F. Ghelarducci, Riforme economico-sociali e Regioni, in St. parl. pol. cost., 1991, 25 ss.; L. Lorello, La potestà legislativa esclusiva della Regione Sicilia ed il limite delle norme fondamentali di riforma economico-sociale. I recenti sviluppi della giurisprudenza costituzionale, in Nuove aut., 1999, 773 ss.; v., inoltre, A. D’Atena, Diritto regionale, Torino, 2010, 253 s.; da ultimo v. anche Corte cost., sent. 12 luglio 2013, n. 187, e sent. 24 luglio 2013, n. 238, entrambe reperibili in www.cortecostituzionale.it; è appena il caso di ricordare come in Corte cost., sent. 14 maggio 1966, n. 37, in Giur. cost., 1966, 679 ss., 684, si legge che “tali limiti funzionano non soltanto in senso negativo, nel senso, cioè, che la legge regionale non può oltrepassarli, ma vale anche nel senso che essi offrono la base per il legittimo esercizio della potestà legislativa e amministrativa dello Stato nei settori in cui, per effetto dei limiti stessi, l’attività regionale non può esplicarsi”. È appena il caso di anticipare che questo specifico problema sembra oggi superato, in ragione della riconduzione (condivisibile o meno) degli idrocarburi nella materia “energia” (v. più oltre infra, par. 6 ss.).
[94] Un dubbio potrebbe, invero, affacciarsi in ragione del fatto che all’art. 37 della legge regionale del 1991 – non modificata, a quanto pare, dalla legge del 2011 – si afferma che “per quanto non previsto dalla presente legge, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modifiche ed integrazioni, ed i relativi provvedimenti di attuazione”. Al di là delle riserve che potrebbero nutrirsi al riguardo, dovrebbe concludersi che il rinvio effettuato dalla legge regionale investa la disciplina dell’accesso complessivamente inteso e, dunque, anche i limiti a questo disposti.
[95] L’art. 29-quinquies della legge n. 241 del 1990 – come modificato con legge 18 giugno 2009, n. 69 – stabilisce che “le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano adeguano la propria legislazione alle disposizioni del presente articolo, secondo i rispettivi statuti e le relative norme di attuazione”; ciò premesso, però, deve tenersi presente che: 1) l’art. 29, comma 1, della legge distingue tra disposizioni della legge sul procedimento applicabili unicamente alle “amministrazioni statali e agli enti pubblici nazionali” e disposizioni della medesima legge – puntualmente elencate – applicabili “a tutte le amministrazioni pubbliche”; in relazione a questa seconda previsione, riconducibili tutte alle materie dell’“ordinamento civile” e della “giustizia amministrativa” di competenza esclusiva dello Stato (cfr. sul punto G. Morbidelli, In tema di art. 29 l. 241/1990 e di principi generali del diritto amministrativo, in www.giustamm.it, 2010, 4), le Regioni a Statuto speciale potrebbero rivendicare l’esercizio della relativa potestà legislativa solo qualora esse materie trovassero espressamente sede in disposizioni statutarie; diversamente, la disciplina prevista dal Legislatore statale non potrebbe che applicarsi anche a loro; 2) con riferimento al previgente Titolo V della Costituzione, la Corte costituzionale aveva sostenuto che “il procedimento amministrativo non coincide con uno specifico ambito materiale di competenza, in quanto modo di esercizio delle diverse competenze”, con la precisazione che “la disciplina dei vari procedimenti dovrà essere affidata a fonti statali o a fonti regionali, a seconda che gli stessi attengano all’esercizio di competenze materiali proprie dello Stato o delle Regioni” (Corte cost., sent. 13 dicembre 1991, n. 465, in Giur. cost., 1991, 3791 ss., 3796). Questo orientamento è stato successivamente confermato anche con riguardo al nuovo sistema costituzionale delle competenze legislative introdotto nel 2001 (cfr. Corte cost., sent. 23 novembre 2007, n. 401, in Giur. cost., 2007, 4447 ss., 4527, con nota di C. Lombardi, Il diritto europeo e la trasversalità dell’intervento a tutela della concorrenza legittimano la disciplina statale dell’evidenza pubblica, ivi, 4569 ss.); ciò varrebbe implicitamente ad escludere che la disciplina del procedimento amministrativo possa essere ricondotta entro la voce “norme processuali”, di cui all’art. 117, comma 2, lett. l), Cost. Fermo restando quanto continua tuttora a prevedere l’art. 29, comma 2, della legge n. 241 del 1990 (sulla cui inutilità e discutibile legittimità v. B. G. Mattarella, I procedimenti delle regioni e degli enti locali, in Giorn. dir. amm., 2009, 1137 ss., 1142), il Legislatore del 2009 ha, tuttavia, inteso alcune disposizioni della legge sul procedimento come espressive dei livelli essenziali delle prestazioni, come tali riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato e applicabili su tutto il territorio nazionale (art. 117, comma 2, lett. m), Cost. In questo modo, la disciplina su alcuni contenuti del procedimento amministrativo, è stata almeno in parte ricondotta entro una “materia” di competenza esclusiva dello Stato; con la conseguenza che, in ragione del carattere trasversale che le è proprio, finisce per applicarsi anche alle Regioni a Statuto speciale (salva la possibilità di prevedere livelli di tutela ulteriori); in questo senso v. più di recente anche Corte cost., sent. 27 giugno 2012, n. 164, in Giur. cost., 2012, 2233 ss., 2272; sul problema v. per tutti F. Teresi, Le competenze delle Regioni a statuto speciale, in Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, a cura di G. Corso-V. Lopilato, Milano, 2006, 131 ss., 165 ss.
[96] Cfr. il D.P.R. 12 aprile 2006, n. 184, che non individua, però, casi di esclusione ulteriori rispetto a quelli posti dalla legge.
[97] Per questa ragione può qui avanzarsi qualche dubbio di legittimità circa la decisione, adottata dall’Assessorato dell’Energia e dei Servizi di P.U. della Regione Siciliana, di rigettare la richiesta di accesso agli atti (5 dicembre 2012), presentata dal “Comitato No Trivellazioni nella Valle del Belice” “per il permesso di ricerca “Masseria Frisella” (…) relativamente al programma lavori” dell’Enel Longanesi Developments, sul presupposto che l’art. 45 della legge regionale n. 14 del 2000 non consente – senza il consenso scritto degli interessati – la diffusione di dati di carattere tecnico ed economico, che riguardino le attività di prospezione, ricerca e coltivazione degli idrocarburi e che rivestano “carattere di riservatezza”.
[98] Cfr. l’art. 1, comma 77, della l. 23 agosto 2004, n. 239, come modificata dalla l. 23 luglio 2009, n. 99.
[99] La legge siciliana, invero, prevede che solo le istanze volte all’ottenimento del permesso di ricerca siano pubblicate sulla GURS e non anche quelle indirizzate al rilascio del permesso di prospezione. Ciò in conseguenza, probabilmente, della decisione assunta dal giudice costituzionale nel 1999, a seguito del conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione nel luglio del 1997, con cui si sosteneva che la pubblicazione da parte dello Stato nel BUIG delle istanze dirette ad ottenere permessi di ricerca in aree comprese nel territorio regionale costituisse una indebita interferenza nella sfera di attribuzioni della Regione; in quell’occasione, la Corte ha, tuttavia, dichiarato inammissibile il conflitto, sottolineando, dopo aver constatando come la legislazione siciliana vigente non prevedesse “alcuna forma di pubblicazione”, che tale pubblicazione costituisse un adempimento comunque dovuto e che avesse “finalità meramente conoscitive: cfr. Corte cost., sent. 28 luglio 1999, n. 365, in Giur. cost., 1999, 2811 ss.
[100] È appena il caso di precisare che la disciplina delle aree marine è in seguito mutata: dapprima in virtù di quanto stabilito dall’art. 1, comma 81, della l. 239 del 2004 (come modificato dalla l. 99 del 2009) e poi in ragione di quanto previsto dal d. lgs. 29 giugno 2010, n. 128, con cui si è introdotto il comma 17 all’art. 6 del Codice dell’ambiente (d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152). Detto comma è stato successivamente modificato: v., da ultimo, l’art. 35 del d.l. 22 giugno 2012, convertito con l. 7 agosto 2012, n. 134. Il testo attualmente in vigore – per la parte che qui interessa – recita: “Ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni dell’Unione europea e internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare, di cui agli articoli 4, 6 e 9 della legge 9 gennaio 1991, n. 9”.
[101] In senso contrario, però, T.A.R. Abruzzo, Pescara, sent. 27 febbraio 1998, n. 221, in Riv. giur. amb., 1998, 929 ss., ove si legge che “l’attività di ricerca degli idrocarburi, pur autorizzata nel suo svolgimento di massima con un atto ministeriale, per poter essere in concreto espletata in un parco nazionale deve essere ulteriormente autorizzata dall’Ente in questione il quale non solo può imporre specifiche modalità di effettuazione della ricerca al fine di rispettare esigenze ambientali, ma può addirittura vietare in toto lo svolgimento in quel determinato ambito territoriale ove in concreto le modalità di svolgimento della ricerca siano totalmente incompatibili con la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati «con particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat»; questa affermazione, e più in generale l’impostazione della decisione, non può essere condivisa: volendo tralasciare di trattare in questa sede la questione del nulla osta che l’Ente sarebbe tenuto ad accordare preventivamente e non dopo l’adozione del permesso di ricerca (sul quale può vedersi M. Ceruti, Ricerca di idrocarburi in aree naturali protette: il problema della motivazione del nulla osta degli Enti Parco tra interesse minerario ed interesse ambientale, ivi, 937 ss., 938 ss.), deve osservarsi che la legge n. 394 del 1991 stabilisce chiaramente che nei “parchi sono vietate” alcune attività, tra le quali, appunto, “l’asportazione di minerali” (art. 11); con ciò, pertanto, non si è inteso attribuire alcuna facoltà in capo all’Ente Parco di ammettere o – come si legge nella pronuncia – “anche di vietare la stessa ricerca per rispettare e salvaguardare concrete esigenze di carattere ambientali”: le concessioni o autorizzazioni sottoposte a nulla osta dell’Ente Parco, di cui all’art. 13, concernono, infatti, solo le attività ammesse e non anche quelle vietate dalla legge, come appunto l’asportazione di minerali o l’apertura di miniere. In secondo luogo, non può neppure condividersi l’assunto in base al quale “dalla lettura della normativa in questione si rileva anche che l’attività di ricerca degli idrocarburi non è di per sé vietata nell’ambito territoriale di un parco nazionale, essendo al riguardo vietati solo «l’apertura e l’esercizio di cave e di miniere»”, posto che la legge n. 394 del 1991 deve essere necessariamente coordinata con la normativa sugli idrocarburi; ma di ciò – se si eccettua il riferimento effettuato al d.lgs. del 1996 – nella sentenza non v’è traccia.
[102] Come del resto sta a confermare la legge 6 dicembre 1991, n. 394, che all’art. 11 dispone: “nei parchi sono vietate le attività e le opere che possono compromettere la salvaguardia del paesaggio e degli ambienti naturali tutelati con particolare riguardo alla flora e alla fauna protette e ai rispettivi habitat. In particolare sono vietati: (…) b) l’apertura e l’esercizio di cave, di miniere e di discariche, nonché l’asportazione di minerali” (corsivo non testuale). Questa prescrizione deve essere estesa anche alle aree naturali protette regionali, in forza del richiamo all’art. 11 effettuato dall’art. 22 della medesima legge. Qualche dubbio, invece, potrebbe permanere circa lo svolgimento delle attività di ricerca in queste ultime aree, posto che – sebbene, in ragione del divieto di coltivazione, non abbia senso autorizzarle – la legge del 1991 discorre espressamente di “parchi nazionali”.
[103] Cfr. A. D’Atena, Diritto regionale, cit., 144, che osserva come lo spostamento della materia “dalla competenza statale esclusiva alla competenza concorrente” sia il frutto di un autentico errore materiale, dovuto non tanto ad una consapevole decisione politica maturata in sede parlamentare, quanto “all’impiego non sorvegliato dei comandi “taglia” e “incolla” del programma di videoscrittura usato”.
[104] Su questa giurisprudenza v. C. Buzzacchi, La materia energia nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Il prisma energia. Integrazione di interessi e competenze, a cura di C. Buzzacchi, Milano, 2010, 1 ss.
[105] Corte cost., 14 ottobre 2005, n. 383, in Giur. cost., 2005, 3640 ss.; a commento della stessa v. Q. Camerlengo, Autonomia regionale e uniformità sostenibile: princìpi fondamentali, sussidiarietà e intese forti, in Le Regioni, 2006, 422 ss.
[106] Da questo punto di vista, in verità, molti sarebbero i nodi da sciogliere e, in primo luogo, quello di comprendere quale sia in ambito regionale il soggetto competente al rilascio dell’intesa. In attuazione di quanto previsto dall’art. 29, comma 2, lett. l) del d. lgs. n. 112 del 1998 (v. dietro sub nt. 85), la Conferenza Stato-Regioni, con “Accordo procedimentale” del 24 aprile 2001, ha stabilito che tale competenza debba spettare all’“Ufficio della Regione interessata cui la normativa regionale attribuisce la competenza in materia”; ed infatti, mentre vanno paradossalmente moltiplicandosi Risoluzioni dei Consigli regionali volte a vincolare i Presidenti delle Giunte al diniego dell’intesa su singoli procedimenti, l’atto di assenso è normalmente adottato dal Dirigente del servizio competente con propria Determinazione. Nel caso dell’Abruzzo, invero, dalle Determinazioni adottate si evince che l’esercizio di tale competenza poggerebbe sulla D.G.R. 9 settembre 2003, n. 667, che, però, non risulta essere formalmente adottata ovvero pubblicata; d’altra parte, l’art. 23 della legge regionale 14 settembre 1999, n. 77, recante “Norme in materia di organizzazione e rapporti di lavoro della Regione Abruzzo”, elenca espressamente le competenze del Direttore regionale, senza ricomprendere, tra queste, il rilascio di intese, pareri o atti di assenso comunque denominati in relazione a procedimenti amministrativi statali. Quel che c’è di vero – e che dovrebbe indurre a considerare più a fondo la differente posizione goduta dal soggetto competente al rilascio del titolo minerario rispetto all’organo di governo chiamato solo ad esprimersi con un atto di assenso – è che la soluzione prefigurata pone seri dubbi di legittimità, soprattutto alla luce dei numerosi spunti che possono trarsi dalla giurisprudenza costituzionale, che, nel ricondurre l’intera questione alla garanzia delle competenze costituzionalmente sancite in favore dei diversi livelli territoriali di governo e alla esigenza che i rapporti relativi si ispirino al principio di leale collaborazione, sembra considerare detti atti – seppure implicitamente – come manifestazione dell’esercizio della funzione di indirizzo politico-amministrativo e non anche come espressione di una discrezionalità tecnica dell’organo regionale: cfr. utilmente Corte cost., sent. 27 dicembre 1991, n. 482, cit.; sent. 14 ottobre 2005, n. 383, cit.; sent. 5 giugno 2013, n. 117, in www.cortecostituzionale.it; cfr. anche sent. 3 maggio 2013, n. 81, in www.cortecostituzionale.it, ove si legge: “La separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e funzioni di gestione amministrativa, quindi, costituisce un principio di carattere generale, che trova il suo fondamento nell’art. 97 Cost. L’individuazione dell’esatta linea di demarcazione tra gli atti da ricondurre alle funzioni dell’organo politico e quelli di competenza della dirigenza amministrativa, però, spetta al legislatore” (p.to 3.2 Cons. dir.).
[107] V. infra nt. 100.
[108] A meno che non si tratti di attività finalizzate a migliorare le prestazioni degli impianti di coltivazione, a partire da opere esistenti, nel qual caso, pur dovendo esse essere autorizzate, il parere degli Enti locali non sarebbe da acquisire e l’eventuale perforazione non risulterebbe più soggetta a valutazione di impatto ambientale, come invece lasciava presupporre implicitamente il comma 82-sexies dell’art. 1 della legge.
[109] V. art. 6, comma 5.
[110] Il DPR 18 aprile 1994, n. 526 prevedeva obbligatoriamente la VIA per tutte le attività petrolifere in mare: sia nel mare territoriale sia nella piattaforma continentale; esso è stato, tuttavia, abrogato dal d.lgs. 16 gennaio 2008, con cui si è modificato l’art. 36 del codice dell’ambiente, dedicato alle “abrogazioni e alle modifiche”; un obbligo di sottoporre i progetti a VIA in relazione ad aree marine protette potrebbe discendere da Trattati o Convenzioni internazionali; in proposito è però da osservare che il protocollo offshore della Convenzione di Barcellona per la protezione del Mar Mediterraneo, cui l’UE ha aderito di recente (Decisione 2013/5/UE del Consiglio del 17 dicembre 2012), stabilisce che “l’autorità competente può chiedere che sia realizzata una valutazione di impatto ambientale” (art. 5), accordando con ciò solo una facoltà per lo Stato di procedere a VIA.
[111] Art. 1, comma 82-quater: “la concessione di coltivazione in terraferma costituisce titolo per la costruzione degli impianti e delle opere necessari all’esercizio, che sono considerati di pubblica utilità ai sensi della legislazione vigente” (corsivo non testuale).
[112] Art. 1, comma 7: “Sono esercitati dallo Stato, anche avvalendosi dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas, i seguenti compiti e funzioni amministrative: (…) n) le determinazioni inerenti la prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, ivi comprese le funzioni di polizia mineraria, adottate, per la terraferma, di intesa con le regioni interessate” (corsivo non testuale). La prassi più recente non è comunque d’aiuto, posto che, a seguito dell’entrata in vigore della legge n. 99 del 2009, si sono avuti due soli decreti di conferimento di concessione di coltivazione di idrocarburi in mare: il D.M. 14 dicembre 2009, n. 16, di conferimento della concessione di coltivazione «A.C 35.AG» alle Società ENI e Medoilgas Italia, in BUIG 31 gennaio 2010, n. 1, 21 ss., e il D.M. 17 giugno 2013, n. 89, di conferimento della concessione di coltivazione «A.C 36.AG» alle Società ENI S.p.A. (r.u.) ed Edison S.p.A, in BUIG 30 giugno 2013, n. 6, 18 ss.; solo per quest’ultimo si è proceduto all’acquisizione del parere della Regione interessata (p. 20); sulla base di quale previsione normativa non è dato, però, sapere.
[113] Nell’ampio dibattito sviluppatosi cfr. almeno S. Mangiameli, L’autonomia regionale speciale nella riforma del Titolo V della Costituzione, in Le autonomie territoriali: dalla riforma amministrativa alla riforma costituzionale, a cura di G. Berti-G.C. De Martin, Milano, 2001, 143 ss., ora in Id., La riforma del regionalismo italiano, Torino, 2002, 153 ss.; C. Salazar, Elenchi di materie e riforma del Titolo V della costituzione: note problematiche intorno ad una possibile rilettura degli artt. 14 e 17 dello statuto siciliano, in La specialità siciliana dopo la riforma del titolo V della costituzione, a cura di G. Verde, Torino, 2002, 35 ss.; A. D’Atena, Diritto regionale, cit., 246 ss.; circa l’applicazione dell’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001 in relazione ad ipotesi ulteriori rispetto a quella menzionata nel testo v. E. Gianfrancesco, L’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 ed i controlli nelle regioni ad autonomia speciale, in Giur. cost., 2002, 3312 ss.; G.C. De Martin, La condizione e il ruolo delle autonomie locali nelle Regioni a statuto speciale e nelle Province autonome, in Le autonomie locali nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome, a cura di F. Clementi e P. Galeone, Roma, 2004, 245 ss.; A. Ruggeri, La legge La Loggia e le Regioni ad autonomia differenziata, tra “riserva di specialità” e clausola di maggior favore, in Le Regioni, 2004, 781 ss.
[114] Corte cost., sent. 13 gennaio 2004, n. 8, in Giur. cost., 2004, 175 ss.
[115] Corte cost., sent. 12 maggio 2011, n. 165, in Dir. giur. agr. alim. amb., 2012, 251 ss., con nota di A.M. Basso, Trasmissione, distribuzione e produzione di energia: l’urgenza, l’indifferibilità, il carattere strategico nazionale e le potestà concorrenti tra intesa e potere di sostituzione dello Stato, ivi, 253 ss.
[116] Corte cost., sent. 14 ottobre 2005, n. 383, cit., 3705 ss., p.to 7 del Considerato in diritto.
[117] Cfr. ad es. Corte cost., sent. 6 maggio 2010, n. 168, in Giur. cost., 2010, 2028 ss.; sent. 11 ottobre 2012, n. 224, in Giur. cost., 2012, 3363 ss.
[118] Corte cost., sent. 11 ottobre 2012, cit., 3387 ss., p.to 4.2 del Considerato in diritto.
[119] Corte cost., sent. 14 ottobre 2005, n. 383, cit., 3712 ss., p.to 15 del Considerato in diritto; sent. 12 maggio 2011, n. 165, cit., 252, p.to 5 del Considerato in diritto.
[120] Corte cost., sent. 19 luglio 2004, n. 236, in Giur.cost., 2004, 2463 ss.; sent. 14 ottobre 2005, n. 383, cit., 3705 ss., p.to 7 del Considerato in diritto; sent. 12 maggio 2011, n. 165, cit., 252, p.to 6 del Considerato in diritto.
[121] Corte cost., sent. 14 ottobre 2005, n. 383, cit., 3710 ss., p.to 13 del Considerato in diritto.
[122] Contra, invece, S. da Empoli-A. Sterpa, La Corte costituzionale e il federalismo energetico, in Federalismi.it, 3, 2004.
[123] Nella legge si legge infatti che le Regioni e le Province ad autonomia speciale “provvedono alle finalità della presente legge ai sensi dei rispettivi statuti speciali e delle relative norme di attuazione”; sul punto v. ancora Corte cost., sent. 14 ottobre 2005, n. 383, cit., 3711 ss., p.to 14 del Considerato in diritto.
[124] Problema che, peraltro, non risulterebbe neppure direttamente risolvibile sulla base di quanto disposto dall’art. 1 della legge 131 del 2003.
[125] A. D’Atena, Legge regionale, cit., 987 ss.
[126] Per un recente caso di applicazione dell’art. 10 della legge 10 febbraio 1953, n. 62 cfr. T.A.R. Piemonte, Sez. I, sent. 7 dicembre 2012, n. 1305, in www.caseandlaw.com.
[127] Cfr. Corte cost., sent. 23 luglio 2002, n. 376, in Giur. cost., 2002, 2791 ss.
[128] Su ciò v. per tutti A. D’Atena, Diritto regionale, cit., 252 ss., ed ivi giurisprudenza costituzionale citata.
[129] Cfr. A. Ambrosi, La competenza legislativa delle Regioni speciali e l’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, in Le Regioni, 2003, 825 ss., 839.
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